L'editoriale dell'elefantino
A Gaza si decide la sorte del mondo
I tentennamenti del presidente americano Joe Biden su Israele sovvertono la strategia di difesa dell’occidente dal terrorismo
Era già successo con Ronald Reagan, che definì bombasticamente un “olocausto” il bombardamento di Beirut alla caccia dell’Olp da parte di Menachem Begin, e con George W. Bush, che intimava “step back” e “step back now” ad Ariel Sharon quando la Cisgiordania fu oggetto di un repulisti antiterrorista con tanto di ingresso dei carri armati di Tsahal. Israele è un legame storico ineliminabile e insieme un viluppo di decisioni estremamente difficili per la leadership americana, non solo quella democratica. Basta pensare al culmine del dissidio politico e strategico con Barack Obama, quando Benjamin Netanyahu portò addirittura davanti al Congresso, plebiscitato in particolare dai repubblicani alla vigilia dell’irruzione di Trump, la sua opposizione alla decisione della Casa Bianca favorevole al patto con l’Iran sul nucleare. Non è una rissa di strada, ovviamente, e non sono casi isolati. Però le forze responsabili hanno sempre cercato di evitare che il dissenso sul da farsi degenerasse fino al punto di diventare una crisi di legittimazione tra due democrazie. Il Wall Street Journal, che è un organo di opinione autorevolissimo, con una sua storia anche lineare e un suo sistema di consenso che fa centro sul Pentagono, ha suonato la carica contro Joe Biden, imputandogli una posizione flip flop, di cambiamenti continui e irrazionali, approdata al ricatto sulla continuazione della guerra contro Hamas a Rafah per ragioni strumentali interne (i due stati e due popoli a cui Biden pensa, dicono, sono il Michigan e il Nevada, cruciali distretti elettorali in cui le conseguenze di Gaza e Rafah potrebbero provocare uno smottamento a sfavore dei democratici nel prossimo novembre).
Vale anche per gli Stati Uniti, osservano al Wsj, quello che secondo Kissinger valeva per Israele: non hanno una politica estera perché ne hanno una interna.
Se non è una rissa, non è nemmeno solo uno scontro tra leadership, in cui il problema sarebbe il grado di compatibilità possibile tra un presidente democratico e un premier della destra alleato con l’ultradestra detta suprematista. In teoria non è nemmeno uno scontro di linea, visto che visitando Israele in guerra e fornendo il necessario del sostegno militare e della solidarietà Biden ha spettacolarmente sostenuto la guerra contro Hamas dopo il pogrom del 7 ottobre, e alla Casa Bianca non possono non sapere che fermarsi all’ultima tappa vuol dire perdere la guerra, rassegnarsi, arrendersi sotto una specie di impossibilità umanitaria a proseguire fino in fondo. Il problema è che le autocrazie decidono con procedure immediate, segrete, impermeabili al dissenso. Le democrazie hanno altri problemi, com’è noto. Fanno i conti con le elezioni, fanno i conti con l’opinione, vivono sotto sorveglianza di una società civile e di una stampa libera che sono la spina dorsale del sistema politico.
C’è da pensare che al Wall Street Journal sottovalutino quel che è emerso dopo l’inizio della guerra di difesa israeliana contro il suo nemico mortale e la sua rete o fortezza terroristica a Gaza. Non basta chiedere a Biden e ai suoi del Consiglio di sicurezza nazionale di mettere i tredicimila terroristi di Hamas eliminati nel conto delle vittime complessive, che sono oltre trentamila secondo i dati che vengono dalla Striscia, e stabilire percentuali di danni collaterali tollerabili. Sembra un modo magari efficace nella polemica dura ma un po’ ingenuo di procedere. Qui è successo qualcosa di più grave e profondo, che non è riducibile agli effetti snervanti, estenuanti, della comunicazione televisiva e social e alla rappresentazione della guerra di schiacciamento in atto a Gaza, sebbene questo profilo della cosa non possa essere negato o stemperato. Non è una questione riducibile alla febbre dei campus della Ivy League o alla moltiplicazione delle manifestazioni con una piattaforma pro palestinese radicale, liberazione del territorio conteso dal fiume al mare, estesa ben oltre le tradizionali posizioni filoarabe. E nemmeno riducibile alla decisiva tendenza alle saldature antisraeliane e antiamericane in un teatro degli stati-nazione che sul piano mondiale si disloca sui due fronti, ucraino e gazawi, con posizioni ostili alla linea di Biden, fino alla desolidarizzazione aperta con il combattimento degli ucraini e alla richiesta di un cessate il fuoco suicida rivolta a Tsahal. Una dissociazione come quella che oggi minaccia non il governo di Netanyahu, che pure è il governo legittimo di un paese aggredito e in guerra di autodifesa, ma il nesso di fraternità e di mutua responsabilità su cui si è fondata per decenni la strategia di difesa dell’occidente dal terrorismo e dall’aggressione islamista dispiegata, una simile dissociazione si comprende solo alla luce di quella rottura del codice morale che dal 1945 in poi è stato progressivamente illuminato dalla tragedia della Shoah. Se la percezione delle cose non è più quella del combattimento tra una democrazia in terra ebraica e il nichilismo di chi vuole sradicare un popolo dalla sua condizione di indipendenza e libertà e vita, se la percezione è invece quella della guerra tra due nichilismi eguali o, peggio ancora, tra una potenza coloniale e i suoi oppressi, allora la delegittimazione tra democrazie può diventare cosa fatta. Prima di portare a conseguenze irrimediabili la comprensibile volontà di esercitare un potere di condizionamento, un leverage, sui modi di conduzione della guerra a Gaza, è a questo che i democratici americani sono tenuti a pensare e prestare molta attenzione. Valicato quel confine, cambia la storia del mondo.