L'editoriale dell'elefantino
Fermare Putin, smantellare Hamas? E chi ci pensa più
L’occidente si fa sentire ormai solo per fissare i limiti a cui si deve attenere la guerra degli ucraini o per imporre a Israele di combattere con le mani legate. Ma nessuno chiede ai terroristi una dichiarazione di resa per la pace
Fermare Putin. Smantellare Hamas. Abbiamo scherzato? Così pare. Le autorità occidentali si fanno sentire ormai solo per fissare linee rosse invalicabili. Sono i limiti a cui si deve attenere la guerra degli ucraini per difendersi dall’aggressione, contenere e respingere l’esercito russo che semina morte e disperazione, toglie l’energia e mette al buio intere regioni, bombarda Kyiv e Odessa, minaccia il blackout alla centrale atomica di Zaporizhzhia. Bene. La guerra in Europa Putin la porta con la coscrizione generale, con lo svuotamento delle carceri per riempire l’aggressione di carne umana da macellare, con la virata dell’economia industriale degli armamenti, con le alleanze canaglia che portano rifornimenti dalla Corea del nord e dall’Iran.
Chi sostiene l’Ucraina assalita dice che non può ricevere armamenti capaci di colpire il territorio russo, che non deve colpire le raffinerie russe altrimenti aumenta il prezzo del petrolio, che non può aspettarsi le munizioni che servono perché il Congresso americano e l’Unione europea sono in una logica di attesa, di rinvio, di blocco, lo stesso no per i missili Taurus e la confisca dei quattrini degli oligarchi già sequestrati in depositi fruttiferi, e la prospettiva di intervento diretto della Nato di fronte a una guerra espansionista che si dispiega e ricorre a ogni mezzo provocando le peggiori conseguenze è degradata a provocazione, a escalation, a Terza guerra mondiale.
Il pretesto umanitario impone a Israele di combattere con le mani legate, linea rossa per l’operazione di terra a Rafah, che non il solo Netanyahu o il ministro della difesa Gallant vogliono fermamente, ma anche il capo dei progressisti entrato nel gabinetto di guerra, il generale Gantz, esige come indispensabile compimento dello scontro con il nemico del 7 ottobre; nessuno chiede a Hamas una dichiarazione di resa per la pace, e la liberazione degli ostaggi in cambio di un cessate il fuoco, nessuno rende gli amici e alleati di Hamas nel mondo responsabili di complicità nel disastro umanitario della Striscia, la resa è solo quella richiesta a Tsahal. È come se durante l’ultima guerra contro Hitler gli americani di Roosevelt avessero chiesto a Churchill di non bombardare città e snodi ferroviari in Germania, di non sbarcare in Sicilia o di non entrare a Roma “città aperta” e non varcare la linea gotica. Riprendono nel frattempo i finanziamenti all’Unrwa, l’agenzia Onu inquinata da Hamas e in parte corresponsabile della sua belluina ferocia prima, della sua condotta bellica di autodifesa blindata a spese dei civili poi. Va avanti il boicottaggio di Israele, la dissociazione codarda su pressione antisraeliana e antisemita ovunque si possa, prima di tutto nelle università.
La forza delle democrazie è nella loro capacità di resistere, ma resistere vuol dire combattere, impedire che il nemico varchi le linee rosse che le democrazie impongono, non subire le sfrontate provocazioni dell’avversario strategico, non aprirgli l’ampio fronte della credibilità, dargliela vinta prima ancora che la battaglia sia terminata. Qualcuno ha osservato con ragione che il comportamento recente dell’occidente in Ucraina è una giustificazione a posteriori della teoria putiniana dell’operazione speciale, questa guerra è trattata come un conflitto particolare in cui le ragioni generali e comuni e gli interessi decisivi delle democrazie euroatlantiche non contano più nulla. E a Rafah è lo stesso. Invece di concentrarsi sull’operazione di sblocco per la ricollocazione dei civili intrappolati, si decide che i nemici di Hamas devono premiare la logica del bunker con gli ostaggi incorporati.