Al di là dell'orrore. Cosa ci racconta del mondo attuale la strage di Mosca
L'attentato alla Crocus City Hall è il segnale sinistro della fine del consenso internazionale minimo, che fu dettato dall’equilibrio nucleare. Un potere fuori del controllo reciproco. E si è rotto anche il consenso storico-morale sul significato della Shoah: l’antisemitismo torna travestito da antisionismo
La strage di Mosca non è soltanto puro orrore, è anche il segnale sinistro della fine del consenso internazionale minimo, ormai consumata fino alle estreme conseguenze. I decenni dell’accordo di Yalta, la spartizione delle aree di influenza dopo l’ultima guerra mondiale, furono decenni di guerra anche quelli: l’Ungheria, Cuba, il Vietnam, la Cambogia, la Cecoslovacchia e numerose campagne belliche regionali, fino alla stagione dei terrorismi politici, ne diedero ampia testimonianza. La guerra fredda era caldissima. Tuttavia regnava un sottile equilibrio. Tutti sapevano che qualcuno sapeva. Le informazioni circolavano dove era necessario, i limiti del conflitto generalizzato erano più o meno sotto controllo. C’era il ponte delle spie, l’intelligence condivideva segreti apparentemente inespugnabili tanto a ovest quanto a est, e li scambiava. Il Kgb analizzava le strategie di influenza americane in Germania e nell’Europa occidentale in vista delle sue operazioni speciali, la cremlinologia era lo squadernamento di dati riservati su un regime totalitario le cui regole erano abbastanza conosciute. Ora nessuno sa chi sa che cosa. Dall’ascesa di Putin con gli attentati del 1999 e del 2002 (i palazzi esplosi e l’assalto al teatro Dubrovka) una malefica magia nera dell’orrore e del mistero si è impadronita dei rapporti internazionali, la sicurezza ha smesso di essere considerata interesse comune, entro i limiti di un equilibrio conflittuale: così è nata una delle premesse della guerra in Europa. Per questo tutti guardano alla carneficina del concerto, ai suoi segni premonitori, alla disputa sul significato degli avvisi dell’intelligence americana, al gioco delle responsabilità e delle accuse, come a una scintilla che può far deflagrare altro esplosivo.
L’esaurimento di questo consenso minimo, che fu dettato dall’equilibrio nucleare e dalla minaccia di reciproca distruzione in caso di dissesto di quell’equilibrio, dipende da un fattore opaco ma alla fine chiarissimo. Il regime di Putin ha riaperto la ferita della fine della guerra fredda, giunta con la sconfitta e implosione dell’Unione Sovietica e del suo impero e sistema di alleanze. Putin ha giocato al momento politicamente giusto, cioè efficace, la carta di nuove alleanze al seguito della sua operazione speciale oggi ufficialmente trasformata in guerra, anche nel lessico strategico. I non allineati del sud globale, quelli della Conferenza di Bandung (1955), puntavano sulla pace e sullo sviluppo come bandiere di indipendenza e di divincolamento dalle influenze dei blocchi. Erano i Nehru, i Sukarno, Ciu En Lai, Nasser, Tito a battersi e allearsi contro il bipolarismo d’acciaio che li minacciava. Ora è diverso: le regole della nuova alleanza antioccidentale si fanno a Pechino e a Mosca, seguono atti di guerra dispiegata e si intrecciano con altri drammatici scenari di crisi, come il medio oriente.
La rottura del consenso minimo internazionale parallela alla cogestione bipolare del potere d’influenza, e altrettanto se non più sinistra, è quella storico-morale sul significato della Shoah e il ritorno dell’antisemitismo travestito da antisionismo, ben fermo nella rivendicazione dell’annichilimento di Israele e nella cacciata del popolo ebraico dal fiume al mare, cioè dalla loro terra conquistata con il timbro delle risoluzioni internazionali in sede Onu e con le guerre di difesa e indipendenza. Stalin fu il primo a riconoscere il nuovo stato con la Stella di David. Le politiche variavano, l’Egitto era corteggiato dagli eserciti e dalle intelligence in campo, Israele doveva cavarsela come poteva e se la cavò, ma il sostrato comune della guerra fredda era il reciproco riconoscimento di valori nel nome della liberazione dei campi di sterminio. Oggi la denazificazione è un’accusa propagandistica e paradossale che ci si rinfaccia all’ombra delle operazioni segrete e di un potere fuori del controllo reciproco, e il diritto all’esistenza di Israele è politicamente e diplomaticamente al lumicino. Per tutte queste ragioni, come di tutte le cose che non si conoscono, è difficile e vano ora parlare delle conseguenze della strage di Krasnogorsk.