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L'ascesa di Hitler e i tanti che non l'hanno visto arrivare
Era il 1933. Il giornalista Léon Blum, socialista ed ebreo, scrisse che il Führer era il "simbolo del cambiamento". Il resto d’Europa credeva che i nazisti si sarebbero moderati. Così il mondo libero chiuse gli occhi
Commentando le elezioni tedesche, un politico francese di sinistra, ebreo, rispettabilissimo, scrisse che Hitler era “il simbolo del cambiamento, del rinnovamento, della rivoluzione”. Le elezioni erano quelle per il Reichstag del 31 luglio 1932. Il partito nazionalsocialista di Hitler aveva ottenuto il miglior risultato tra quelli che ebbe quando le elezioni erano ancora libere e democratiche. La sinistra e il centro ne avevano più di lui, ma non riuscivano a mettersi d’accordo. L’autore di questo giudizio su Hitler, pubblicato sul giornale Le Populaire del 3 agosto 1932, si chiamava Léon Blum. Non era certo un ammiratore di Hitler. Era il leader dei socialisti francesi. Sarebbe divenuto nel 1936 primo ministro del governo del Fronte popolare. La repubblica fantoccio di Vichy l’avrebbe processato e consegnato nel 1943 ai nazisti, che lo rinchiusero assieme alla moglie a Buchenwald.
Blum è convinto che in Germania ci siano altri peggio, e più reazionari, di Hitler. Che sarebbe “ancora più desolante” di quella di Hitler una vittoria dei vecchi marpioni della politica e della destra. Ad esempio von Papen, il cattolico centrista, già cancelliere, che avrebbe inventato un governo capeggiato da Hitler con sé stesso suo vice, illudendosi di dare lui le carte. O il generale von Schleicher, cancelliere giusto prima di Hitler, che voleva far intervenire l’esercito contro i nazisti, e che per questo sarebbe stato assassinato dalle Ss nella Notte dei lunghi coltelli. Ritiene che sia Hitler a rappresentare il “nuovo”, il “cambiamento”, “il rinnovamento”, anzi addirittura “la rivoluzione”, rispetto alla vecchia stagnante Germania, alla Repubblica di Weimar in fibrillazione. Sostiene, lui ebreo, lui sotto tiro permanente degli antisemiti francesi, che anche l’antisemitismo e il razzismo di Hitler siano espressione degli “istinti contraddittori, di tutte le ansie, di tutte le miserie e di tutte le rivolte della Nuova Germania”. L’autorevole esponente socialista degli anni 30 fa insomma le stesse identiche considerazioni che qualcuno fa oggi per spiegare il consenso a Donald Trump. Deriverebbe – per il consenso che ha tra i giovani, e anche quello tra neri ed ispanici – dal suo essere il vero uomo nuovo, antisistema, portatore di movimento rispetto alla stagnazione, al tran tran, all’arroganza dell’establishment.
L’articolo di Blum venne citato estesamente all’inizio di una conferenza che nel 1990 il filosofo francese Gérard Granel tenne alla New School for Social Research di New York. Si intitolava: “Gli anni Trenta sono davanti a noi”. La profezia era forse un tantino prematura. Ma viene argomentata in modo molto suggestivo. Gli anni Trenta per Granel sono quelli in cui si affermano poteri diversi, apparentemente fondati su ideologie in conflitto tra loro, come quello di Mussolini in Italia, di Stalin in Russia e, alla fine, di Hitler in Germania. Ma accomunati dall’intenzione di “distruggere l’ordine economico, politico e spirituale in cui l’Europa (ma anche l’America) si riconoscevano, e sostituirlo con ‘un nuovo ordine’”. È come se il mondo intero, stanco dei sussulti, della frammentazione, delle complessità della democrazia, delle risse tra una varietà di idee, posizioni, etnie, avesse bisogno impellente di totalità, totalitarismo, uniformità sociale e guida politica, possibilmente da parte di un uomo solo, o di un partito solo al comando.
Lungimiranza impressionante da parte di un pensatore che scrive negli anni 90, in assoluta controtendenza rispetto al momento in cui veniva enunciata. Erano appena caduti Muro e comunismo. Non si parlava che di “fine della storia”. Sembrava l’inizio di un’èra di trionfi illimitati per la democrazia. Si capisce che non venne preso molto sul serio chi prevedeva che avremmo avuto ancora a che fare con Putin e simili, con una maggioranza planetaria di autocrazie, elette o no. Altra analogia impressionante tra la nostra attualità e quei fatidici anni Trenta: la rapidità con cui successe tutto, crollarono le vecchie certezze. Dall’accesso di Hitler alla cancelleria (1933) alla guerra mondiale (1939) passano appena sei anni, un batter d’occhio. E tra gli storici c’è chi sostiene che, su scala mondiale, la guerra sarebbe iniziata ben prima, addirittura nel 1931 (è la tesi di Richard Overy nel suo monumentale Sangue e rovine. La Grande guerra imperiale, 1931-1945, Einaudi 2022).
Negli anni 30 Blum non fu il solo a prendere abbagli. Due sofisticati intellettuali francesi di sinistra, Georges Bataille e André Breton, giunsero, per quanto sembri incredibile, a esprimere approvazione per la rioccupazione della Renania da parte della Wehrmacht. Scrissero senza arrossire: “Noi siamo per un mondo del tutto unito – che non ha nulla a che vedere con l’attuale coalizione poliziesca contro un Nemico pubblico numero uno [cioè Hitler]. Siamo contro i pezzi di carta, la prosa servile delle cancellerie […]. A tutto questo preferiamo, in ogni caso, la brutalità antidiplomatica di Hitler [stavo quasi per digitare sulla tastiera – lapsus di anacronismo – Putin, anziché Hitler, Nda], più pacifica, nei fatti, dell’eccitazione bavosa dei diplomatici e dei politici”.
Insomma: non li avevano visti arrivare, tanto per usare una frase tornata di questi tempi in auge (e che porta in genere un po’ di sfiga a chi la usa). Non avevano visto arrivare Hitler nel resto d’Europa. Non lo avevano visto in America. Non lo avevano visto arrivare nella Mosca di Stalin, né nel movimento comunista internazionale. La Pravda quasi non diede la notizia della nomina a cancelliere di Hitler, erano fissati sulla puntata precedente, quella in cui il nemico erano i “socialfascisti” e i liberali. E con i nazisti ci si poteva anche alleare per far cadere la Repubblica borghese di Weimar. Lì, in una posizione aberrante in cui nell’opposizione tedesca si litigava quasi peggio che nel nostro “campo largo”, sarebbero rimasti per almeno un anno ancora, forse più. La cosa che fa più impressione è che non lo avevano visto arrivare in Germania. Non lo vide arrivare la gloriosa socialdemocrazia tedesca. Il capogruppo Spd al Reichstag, Breitscheid, sostenne che l’obiettivo del pateracchio tra reazionari e nazisti non era un regime di tipo fascista ma “una dittatura del capitale”. Il vecchio, venerabile Kautsky, ancora a maggio del 1933, quando non ci poteva essere più alcun dubbio, si diceva convinto che le carnevalate degli “imbecilli ignoranti che sanno solo travestirsi da cavalieri nordici” avrebbero fatto il loro tempo, e Hitler sarebbe stato abbandonato dai suoi sostenitori, e dai suoi alleati nel governo di coalizione non appena si fossero resi conto che non era in grado, né aveva l’intenzione di mantenere le sue promesse demagogiche. E poi si dice: le ultime parole famose.
Più dei professionisti della politica avevano intuito qualcosa i grandi scrittori: Robert Musil, il medico psichiatra Alfred Döblin di Berlin Alexanderplatz, l’Hans Fallada di E adesso, pover’uomo? il Thomas Mann di Mario e il Mago, e altri romanzieri meno noti. Ma il figlio Klaus Mann, sorpreso dalla notizia della nomina a cancelliere di Hitler mentre sta tornando da una vacanza sciistica, annota nel suo diario: “Orrore. Mai pensato possibile”. E il giorno dopo: “Il Mago [così veniva chiamato in famiglia il vecchio Thomas Mann] è più tranquillo sulla questione Hitler di quanto pensassi”. Limitandosi ad aggiungere: “lo rende nervoso dover trascurare le sue conferenze su Wagner”. Altro che Wagner, avrebbe dovuto fare le valigie in fretta e furia.
Gli anni Trenta, e in particolare lo spartiacque del 1933, è una miniera preziosa, pressoché illimitata di analogie con l’attualità (non identità, analogie, e quindi spunti di riflessione, aiuto, spinte per far lavorare il cervello, non appiattirsi sulla propaganda). Era questo il senso di Sindrome 1933, pubblicato da Feltrinelli nel 2019. Pensare a quel che succede nel nostro oggi, non sostenere che il tutto si sta ripetendo alla stessa maniera. Quattro anni dopo riprenderei tale e quale quel che raccontavo in quel libro. Anche se nel frattempo sono usciti altri studi. Per citarne solo due, formidabili: Febbraio 1933. L’inverno della letteratura, di Uwe Wittstock (Marsilio 2023) e Il lungo inverno del 1933. Alle origini della Seconda guerra mondiale, di Paul Jankowski (Laterza 2021). Potrei fare mio l’esordio del libro di Jankowski: “A volte qualcuno mi chiede su cosa sto lavorando. Su quel momento degli anni Trenta, rispondo, in cui le grandi potenze mondiali, e alcuni dei loro partner minori voltarono le spalle a quel che restava di un ‘ordine mondiale’ e si allontanarono l’una dall’altra. E spesso i miei interlocutori reagiscono dicendo: ‘Proprio come vanno le cose oggi!’”.
Il ‘33 è diventato planetario. Le analogie si sono nel frattempo infittite, estese, divenute ancora più spaventose. Le spinte populiste, demagogiche, l’odio moltiplicato sui social, la crisi del riformismo e della politica, la caduta degli ideali e delle proposte, la delusione e l’apatia dei giovani, i nuovi fanatismi, anche quelli che si atteggiano a progressisti, le nuove intolleranze, il formarsi di una specie di internazionale dell’autocrazia, sembrano fenomeni universali, inarrestabili. Non lo sono. Sono convinto che non sia affatto detta l’ultima parola. Ma chi poteva pensare, solo quattro anni fa, a un ritorno di Trump in America o all’ipotesi di un ritorno al governo, in Germania, in un’eventuale coalizione con la destra “normale”, dell’ultra destra di Alternative für Deutschland, AfD? O al ritorno della minaccia di una guerra mondiale e nucleare? Lo riscrivessi, lo intitolerei: Sindrome 1933, oggi?
L’Europa pensante, la sinistra, negli anni Trenta erano pacifiste senza se e senza ma. Bisognava evitare in ogni caso, a ogni costo, un immane e inutile massacro come quello nelle trincee della Grande guerra. Nel novembre 1935 fu rappresentato a Parigi, con straordinario successo, La guerre de Troie n’aura pas lieu di Jean Giraudoux, una pièce in cui i protagonisti dell’Iliade si convincono a fare la pace. In Inghilterra prevaleva nell’opinione pubblica un clima di apatia e di disinteresse nei confronti di quel che succedeva sul continente europeo, e anche di quel che succedeva in Germania. I giornali britannici ne parlavano poco. “La Germania ha le convulsioni, e il Morning Post pubblica squisiti articoli sulla mostra dei fiori”, ironizzò un corrispondente straniero. L’ambasciatore francese a Londra notò che “la grande massa della popolazione era indifferente alla politica”, che “alla gente importava poco dei problemi del mondo”, a meno che non immaginasse qualche conseguenza materiale a proprio danno, come nel caso dei debiti di guerra verso gli Stati Uniti, o delle guerre in estremo oriente, che potevano avere conseguenze sui commerci mondiali o sull’impero britannico in India.
Già allora, molto prima delle minacce di Trump di lasciare nelle mani di Putin, perché “ne faccia quel che vuole”, gli alleati europei che rifiutassero di pagare le loro quote di spese militari, Londra e Washington (ma anche Londra e Parigi) litigavano in modo scomposto su chi dovesse pagare il conto. Anche lì un’intera generazione aveva sofferto per anni nelle trincee, e poi a causa della pandemia, detta “spagnola”. Nessuno aveva voglia di ritrovarsi nuovamente in guerra. Al governo di Sua maestà, che in Germania fosse diventato cancelliere Hitler non importava granché. Davano per buono che si sarebbe moderato. Avrebbero puntato sull’appeasement sino all’ultimo istante. Puntavano tutto sulla Conferenza di Ginevra sul disarmo. Anche se tra gli storici c’è chi sostiene che non erano così ingenui, tra grande crisi e casse dello stato vuote, il governo britannico puntava soprattutto a guadagnare tempo, per prepararsi in vista di uno scontro ineluttabile.
In America Franklin Delano Roosevelt, appena eletto alla Casa Bianca, doveva vedersela col fuoco incrociato di una destra cattiva e rabbiosa, in cerca di rivincita, armata coi grossi calibri delle principali catene di giornali e della radio, pullulante di amici e ammiratori degli “uomini forti” in Europa, di qualsiasi leader che promettesse di mettere ordine nel caos, arrestare la marea bolscevica, fermare la cospirazione mondiale ebraica. Henry Ford, o il trasvolatore atlantico Charles Lindbergh, o il predicatore padre Charles Coughlin, detto anche “prete della radio”, erano più antisemiti dell’Hitler del Mein Kampf. Erano ultra isolazionisti (come spesso lo è la destra americana), ultra sovranisti (l’America prima di tutti e al diavolo gli altri), ultra pacifisti (non un soldato, non un dollaro per le beghe europee, che non ci riguardano). Avevano il sostegno incondizionato dell’opinione pubblica Usa. Ancora alla vigilia dell’attacco giapponese a Pearl Harbor l’80 per cento degli americani aveva la ferma convinzione che gli Stati Uniti dovessero restare fuori dalla guerra in Europa.
C’era anche un fascismo americano. Ma era più che altro folcloristico. Pesò molto di più una sorta di “cospirazione del silenzio”, una sorta di tacito accordo per far finta di niente, ignorare le notizie dalla Germania, venire incontro, anzi alimentare l’indifferenza del pubblico. Quando non si potevano ignorare del tutto, prevaleva la tendenza a dar credito al nuovo cancelliere nazista. Facevano finta di essere “obiettivi”. Pubblicazioni molto seguite, tipo il Literary Digest, il Time, la Review of Reviews pubblicavano ampi stralci dei discorsi di Hitler, senza commento, lasciando che “fossero i lettori a giudicare”. La Fox Corporation già nel 1931 si era impegnata a non mostrare nei propri cinegiornali scene “di natura controversa […] su cui la reazione potrebbe essere divisiva”. Esemplare l’articolo di Newsweek sulle elezioni tedesche del marzo 1933, che già non erano più né libere né giuste: “Hitler ora avrà la sua occasione [his chance] di salvare la Germania dal bolscevismo, dalla bancarotta e dall’oppressione dall’esterno, come ha promesso”. Tutti, con la sola eccezione dell’antifascista The Nation, vantavano equilibrio equanime di opinioni pro e contro. I proprietari ebrei del New York Times avevano dato direttive alle redazioni e ai corrispondenti di non dare l’impressione di essere troppo prevenuti, troppo partigiani contro Hitler. Hollywood, che si era riempita di produttori, artisti, sceneggiatori profughi dalla Germania finita nelle mani dei nazisti, fece bene attenzione a stare zitta, a non fare onda nella melma, per anni. Il primo film dichiaratamente antinazista, che si prendeva gioco di Hitler, fu Il Grande dittatore di Charlie Chaplin, che è del 1940. Quando la guerra in Europa era già iniziata.
Molti giornali insistevano sul “pacifismo” di Hitler, sulle sue aperture di pace e per il disarmo. Roosevelt nel maggio 1933 aveva fatto appello a 54 nazioni in tutto il mondo perché disarmassero. Hitler aveva accolto l’appello dichiarando che la sua Germania era pronta a “rinunciare a qualsiasi aggressione”, in nome di “una pace con giustizia”. Oggi sappiamo che già si stava preparando alla guerra. Allora gli credettero sulla parola. Non c’era trepidazione o allarme. La linea prevalente era che in Germania non era successo “niente di nuovo”. Niente comunque che toccasse l’America.
Le persecuzioni contro gli ebrei venivano minimizzate. Già allora si distinguevano in antisemitismo becero le università, i templi del sapere. Il presidente di Harvard, la più prestigiosa delle università americane, non solo si astenne dal prendere posizione contro le persecuzioni degli ebrei, ma corteggiò smaccatamente le istituzioni tedesche da cui gli ebrei erano stati scacciati. La simpatia fu generosamente ricambiata. Harvard sarebbe stata l’invitato d’onore alle celebrazioni per il tricentenario dell’Università tedesca di Heidelberg, mentre Princeton fu esclusa, perché aveva accolto il profugo ebreo Albert Einstein. Era a Heidelberg, oltre che a Berlino, che nel maggio del 1933 avevano fatto un falò dei libri colpevoli di “intellettualismo ebraico”. Alla Columbia University un centinaio di studenti avevano protestato contro il gemellaggio con le università naziste. Il leader della protesta fu espulso, con la motivazione che nel suo intervento alla manifestazione si era riferito “in modo non rispettoso” al rettore. I cartelli dei contestatori lo accusavano: “Cincischia mentre [in Germania] i libri bruciano”.
Di recente ho visto in tv il bel film di (e con) Denzel Washington, The Great Debaters (“Il potere della parola”) che narra le vicende, negli anni Trenta, di un piccolo e povero college di provincia i cui campioni di colore battono, in uno degli esercizi di oratoria forense che allora andavano per la maggiore, i campioni bianchi, con gran puzza sotto il naso, di Harvard. Ebbene, nel 1934 si era svolto proprio a Harvard un “dibattito” su Hitler. Le due squadre contrapposte di oratori avevano il compito di dire la loro, nei ruoli di accusatori e di difensori, su quattro immaginari capi di accusa a carico di Hitler. La commissione giudicante, composta da professori, aveva assolto con formula piena Hitler da due delle quattro accuse. Tra cui quella, ritenuta “irrilevante”, di perseguitare gli ebrei. Lo aveva assolto anche dall’imputazione di aver “fatto violare la sacralità dei domicili privati” senza mandato dell’autorità giudiziaria, e di essere il mandante dell’assassinio di 77 ebrei tedeschi nella notte dei lunghi coltelli (in realtà le vittime furono un migliaio). Lo aveva condannato, con un voto di maggioranza, non unanime, solo per aver mandato gente nei campi di concentramento senza precise accuse, e per essersi liberato in modo sanguinario, e “senza processo”, dei capi delle SA, suoi rivali nel movimento nazista, e del generale Schleicher, che fu trucidato nella sua casa a Berlino con l’intera famiglia.
Questo era il clima. Roosevelt, che era necessariamente molto attento agli umori dell’opinione pubblica (la prima cosa che fece alla Casa Bianca fu creare un’apposita task force), si guardò bene dal prenderli di petto. Certamente non aveva simpatie per Hitler, e non era antisemita. Non aveva nemmeno simpatie per gli autoritarismi, anche se c’è stato, tra gli storici, chi ha messo l’accento sulle “affinità”, piuttosto che sulle differenze, tra i grandi esperimenti degli anni Trenta per affrontare la grande crisi. In particolare Tre New Deal. Parallelismi tra gli Stati Uniti di Roosevelt, l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler 1933-1939 del tedesco Wolfgang Schivelbusch (Tropea 2008). Roosevelt ebbe, è noto, buoni rapporti con Stalin, che chiamava “Zio Josef”. Ma era il suo principale alleato in guerra. Senza, l’America non sarebbe riuscita a vincerla. Si può comprendere che inizialmente non volesse urtarsi con Hitler, cercasse impossibili compromessi in nome della pace.
Faccio più fatica a perdonargli di aver convocato nel luglio 1938 una conferenza internazionale a Evian per risolvere il problema dell’accoglienza degli ebrei che volevano emigrare dalla Germania nazista, e soprattutto dall’Austria appena annessa, e di non averne poi accolto che pochissimi, neanche un migliaio. Il suo problema, è chiaro, non era salvare gli ebrei. Era resistere all’ondata anti migranti scatenata nell’opinione pubblica americana dalle sue destre. Evian era stata pensata e convocata perché fosse qualcun altro ad accogliere i profughi. I delegati a Evian versarono calde lacrime sulla sorte degli ebrei perseguitati. Ma dissero tutti che erano già “saturi”. Solo il dittatore della Repubblica dominicana, Trujillo, si offrì di accoglierne qualche migliaio, ma a pagamento. Aveva inventato il pizzo alla maniera dell’Egitto di Al Sisi, della Turchia di Erdogan, della Tunisia e della Libia. I pochi che riuscirono ad arrivare in Dominicana furono decimati dalla malaria, nelle zone paludose che gli erano state assegnate.
Nel numero datato 1 gennaio 1934 di Esprit, un articolo intitolato “Les vingt-cinq points d’Adolphe Hitler”, a firma Eugène Meves, indagava che ne fosse stato, a un anno esatto dalla nomina di Hitler a cancelliere, dei 25 punti “irrinunciabili” del programma del Partito nazista. I primi tre punti chiamano guerra. Il punto 1 suona: “Esigiamo che tutti i tedeschi si uniscano in una Grande Germania”. Il punto 2: “Esigiamo che il popolo tedesco abbia gli stessi diritti delle altre nazioni, che la pace di Versailles ci ha tolto”. Il punto 3: “Esigiamo terra al fine di nutrire il nostro popolo e mettervi l’eccesso della nostra popolazione”. I successivi punti da 4 a 8 chiamano il genocidio. Se la prendono con gli ebrei, con tutti gli stranieri e tutti gli immigrati. 4: “Solo coloro che hanno sangue tedesco possono far parte della nazione […] Nessun ebreo può dunque essere cittadino tedesco”; 5: “Coloro che non sono cittadini tedeschi sono soggetti alle leggi per gli stranieri”; 6: “Solo i cittadini hanno il diritto di partecipare al governo […] Combattiamo il parlamentarismo corrotto che nomina i funzionari secondo l’interesse dei partiti”; 7: “Se non bastano i mezzi di sussistenza gli immigrati saranno espulsi”; e, dopo qualche altro punto vago e generico, il pezzo forte: 11: “Abolizione dei redditi acquisiti senza lavorare e senza sforzo. Abolizione della schiavitù da interessi”. Che in sostanza, oltre a prendersela con i soliti usurai ebrei significa “Riforma fiscale radicale, che liberi i consumatori dal fardello delle imposte indirette e i produttori dalle tasse che li soffocano”. Il resto mette in discussione la Costituzione e la democrazia di Weimar e la libertà di stampa (della “stampa menzognera”, cioè di tutta la stampa non omologata alla propaganda nazista).
Fischiano le orecchie? La critica di Meves ai nazisti è che niente di tutto questo (tranne l’espulsione degli ebrei dai pubblici uffici) sia stato realizzato nel primo anno di governo nazista. Avesse avuto un pochino di pazienza si sarebbe accorto che gli orrori erano dietro l’angolo.