L'editoriale dell'elefantino
L'assedio contro Israele: l'Onu vota il cessate il fuoco a Gaza, Biden non si oppone
Così Netanyahu e Tsahal sono diventati il capro espiatorio dell’opinione pubblica internazionale e degli establishment umanitari. Hamas esulta. Un brutto segno
E’ successo il peggio nella forma proverbiale: tanto tuonò che piovve. Mentre il terrore jihadista induce o obbliga Putin, con sua soddisfazione ormai paranoica, a rovesciare la clamorosa insicurezza interna in una ripresa furiosa e vendicativa della guerra all’Ucraina, sfiorando interessi ormai vitali della stessa Nato, sull’altro fronte la guerra contro i jihadisti di Hamas entra in un clamoroso stallo politico e militare con il voto di astensione americano, nel Consiglio di sicurezza Onu, sulla tregua del Ramadan, senza la condizione del rilascio degli ostaggi, un gesto umanitario che provoca la fredda ritorsione di Netanyahu indebolito e un’acre divisione tra alleati e partner storici. Putin non ha opinione pubblica e parlamenti con cui fare i conti, la guerra è guerra anche se per un tempo fu chiamata operazione speciale, Biden e Netanyahu sì. Il primo deve destreggiarsi tra le diverse fronde del partito democratico e dello stesso establishment della diaspora ebraica americana, questa volta strategicamente divisi sull’appoggio incondizionato a Israele nell’impresa anti Hamas a Gaza, e fronteggiare l’assalto ultrademagogico trumpiano; il secondo è al centro di una guerra politica per il potere che comincia a liberarsi di ogni scrupolo di unità nazionale, un tutti contro tutti e un si salvi chi può al quinto mese dell’autodifesa in terra palestinese. Visto da Teheran, da Mosca, da Pechino, dalla Beirut degli Hizbollah, dalla Siria, dallo Yemen e dal bunker in cui si nasconde il capo di Hamas, Sinwar, il momento ha la sua magia. Visto da Gerusalemme, da Bruxelles, Parigi, Berlino, Londra e Washington, per non parlare degli stati europei dell’est, il momento è proprio tosto.
Chi non fa ragionamenti complicati, quanto al secondo fronte, va per le spicce. Netanyahu è “il peggior leader della storia ebraica, non solo israeliana”, secondo Tom Friedman, e non doveva reagire con una guerra a Gaza. Anche il solido amico di Israele, Chuck Schumer, gli imputa di essersi perso per strada (“he lost his way”). Quanto alla via maestra, nessuno ne conosce una realistica. Tutti parlano della prospettiva dei due stati e dell’aspetto umanitario, in polemica ultimativa con l’ultradestra di governo che spinge per la colonizzazione e la deportazione forzata dalla Striscia, mentre i sondaggi in Cisgiordania e a Gaza dicono che la percentuale di consensi al pogrom del 7 ottobre tra i palestinesi è cresciuta dal cinquanta al settanta per cento.
Biden annuisce al suo senatore e si astiene all’Onu, facendo impallidire anche formalmente l’iniziale appoggio al paese colpito dal 7 ottobre, con la decisione di attuare una strategia di deterrenza forte verso l’Iran, dimostrazione di forza già minata dalla guerriglia Hizbollah al nord di Israele, dagli Houti in Yemen, dalla posizione di Erdogan e dai guai concomitanti del fronte ucraino letteralmente in disarmo. Intanto il ministro della Difesa, Yoav Gallant, che è a Washington a caccia di munizioni e rassicurazioni, si mobilita contro la legge sull’esenzione degli ortodossi dal servizio militare in preparazione nel governo: l’ultima volta che dissentì da Bibi fu rimosso e riammesso nel giro di una settimana. Ora, fa sapere, non c’è premier che possa rimuovere il ministro della Difesa in guerra con Tsahal. Il generale Gantz annuncia l’uscita dal gabinetto di guerra se la legge sugli Haredim fosse approvata così com’è ora, e per soprammercato ispeziona il nord rimproverando al governo di non aver fissato il piano per la dissuasione di Hizbollah e il ritorno nelle città evacuate sotto i bombardamenti.
La verità politica sottostante a tutti questi dati, che sembra inafferrabile in teoria, in via pratica è tristemente decifrabile. L’uomo nero di Israele, Netanyahu, è il prodotto di una trasformazione sociale e politica del paese che va avanti da quasi due decenni, con una battaglia per il consenso che si è fermata provvisoriamente solo dopo quattro tornate elettorali in tre anni e con l’unica maggioranza parlamentare possibile, che comprende i suprematisti biblici dell’ultradestra. Il senso della scelta era chiaro: con i palestinesi nazional-islamisti e iraniani la pace non si fa, come non si fece a Oslo, e la discussione potrà ripartire solo dopo il consolidamento degli accordi di Abramo. Al suo culmine, quando stava per scattare l’accordo con i sauditi, il pogrom del 7 ottobre ha rovesciato la situazione con il ricorso al terrorismo di annientamento antiebraico. Netanyahu e Tsahal, dopo cinque mesi di guerra per smantellare il nemico assoluto della pace, sono diventati il capro espiatorio dell’opinione pubblica internazionale e degli establishment umanitari. Una sola cosa è sicura: far fuori Netanyahu e convocare nuove elezioni, con una guerra già periclitante di suo e esposta all’isolamento internazionale di chi la sta facendo, vuole dire alzare bandiera bianca e premiare indiscutibilmente la strategia di Sinwar e dell’ala dura di Hamas, che plaude alla risoluzione del Consiglio di sicurezza e si tiene ben stretti gli ostaggi del pogrom nella prevedibile prospettiva di un allentamento della pressione per librarli.