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Colossi colpiti e affondati: così la Silicon Valley rischia di diventare la nuova Standard Oil
Un secolo fa il presidente americano Roosevelt brandì lo Sherman Act, la legge antitrust contro i monopoli che distrusse l'impero dei Rockfeller. Dopo cento anni, ora, nel mirino dell'amministrazione Biden ci sono le aziende di big tech. Parallelismi
C’era la folla delle grandi occasioni quel lunedì 15 maggio del 1911 nel Campidoglio di Washington. La coda si dipanava lungo tutta la rotonda, sotto la cupola con gli affreschi dell’Apoteosi di George Washington del pittore italo-greco Costantino Brumidi, per cercare di trovare posto nell’aula della Corte Suprema. Il massimo organo giudiziario degli Stati Uniti non aveva ancora una sua sede ed era ospitato nel Capitol, insieme a Camera e Senato. I giornalisti avevano occupato molte file di poltrone e c’era un’attesa enorme per quello che avrebbe detto il Chief Justice Edward White.
La scena è di quelle che provocano brividi lungo la schiena ai ceo di Apple, Google, Amazon, Microsoft o Meta, che sono stati chiamati spesso a testimoniare in questi anni nello stesso edificio, uscendo ogni volta pallidi e stremati da audizioni di fronte a commissioni del Congresso sempre più ostili. Perché quel che accadde tra le 16 e le 17 di quel lontano 15 maggio potrebbe toccare anche a loro. In un’ora, leggendo appunti con tono monocorde, il giudice White spiegò i motivi di una sentenza storica: gli Stati Uniti avevano deciso di applicare lo Sherman Act a Standard Oil, all’epoca la più grande realtà industriale al mondo, ordinandole di dissolversi nel giro di sei mesi. Fu la più sorprendente offensiva antitrust mai avvenuta e da allora è un promemoria per ogni colosso americano che abbia raggiunto dimensioni e controllo del mercato tali da far scattare l’allarme monopolio.
Sembra una storia lontana, ma a pagina 13 delle 88 con cui l’Amministrazione Biden giorni fa ha messo sotto inchiesta Apple, accusandola di pratiche da monopolista per come ha costruito l’ecosistema degli iPhone, si spiega che il ministero della Giustizia ha agito sulla base della “sezione 2 dello Sherman Act”. Né più né meno di quello che aveva fatto il governo americano oltre un secolo fa, quando aveva deciso di dare una lezione una volta per tutte all’arroganza e allo strapotere con cui si muoveva l’uomo più potente d’America: che non era il presidente degli Stati Uniti, bensì John D. Rockefeller, il fondatore e l’inventore dell’intreccio inestricabile di società petrolifere riunite sotto il marchio Standard Oil.
Lo Sherman Act fu varato dal Congresso nel 1890 ed è una legge semplicissima, con tre soli articoli, che si è rivelata però potente per colpire pratiche contrarie alla concorrenza e costruzioni di monopoli. John Sherman, l’uomo che le ha lasciato in eredità il nome, era un senatore dell’Ohio con velleità presidenziali, ma non riuscì mai ad andare oltre un paio di candidature nelle primarie del partito repubblicano. Si consolò con incarichi di governo come ministro del Tesoro e segretario di stato, ma il suo capolavoro fu trovare i voti sufficienti per far passare la legge antitrust. Un tema che sentiva con forza anche per la sua provenienza dall’Ohio, lo stato dove Rockefeller aveva cominciato a costruire il suo impero.
Il futuro magnate era nato nello stato di New York ma era cresciuto a Cleveland ed è qui che nel 1863 era entrato nel business della raffinazione di petrolio insieme a due soci, Maurice Clark e Samuel Andrews. Sette anni dopo l’attività era già diventata un colosso e Rockefeller aveva dato vita alla sua nuova creatura in Ohio, chiamandola Standard Oil Company. Da lì in poi era stata un’ascesa continua, eliminando gli avversari, facendo fusioni con altre società, comprando ferrovie, ottenendo concessioni privilegiate, manovrando i prezzi del kerosene per l’illuminazione. In pochi anni, Standard Oil aveva assunto il controllo della raffinazione del 90-95 per cento del petrolio prodotto negli Stati Uniti. A quel punto, era il 1882, la costellazione di imprese era stata riorganizzata in un trust, con una quarantina di realtà tenute insieme da un complesso labirinto di controllate e controllanti costruito dagli studi legali che lavoravano per Rockefeller. Un intreccio che scoraggiava chi cercava di svelarne le reali dimensioni, anche per la cultura di totale segretezza che regnava intorno alle attività e ai rapporti tra la Standard Oil del New Jersey – dove era stata trasferita da Cleveland la sede della holding – e le altre società che erano racchiuse nel trust.
Era un monopolio di fatto, senza più rivali, che aveva reso Standard Oil la più grande società petrolifera al mondo e Rockefeller l’uomo più ricco d’America di tutti i tempi: il suo patrimonio aggiornato ai valori contemporanei è calcolato in 420 miliardi di dollari e fa impallidire anche i 150-180 miliardi di ricchezza personale di Elon Musk.
I guai per Standard Oil erano cominciati a emergere con l’approvazione in Congresso dello Sherman Act. Un’operazione che il senatore Sherman aveva gestito avendo ben in mente il colosso costruito a Cleveland da Rockefeller e soprattutto la struttura segreta dei trust che lo accompagnava. L’atmosfera politica stava cambiando, come segnalava l’esito del voto sulla legge antitrust: 51-1 al Senato, 242-0 alla Camera.
Rockefeller non se ne curava, non scendeva a patti con i politici, non aveva una struttura di comunicazione – la allestì in modo spartano solo nel 1906, quando era troppo tardi – non dava interviste e non credeva alle pubbliche relazioni. Quando il procuratore generale dell’Ohio David Watson provò a metterlo sotto inchiesta sulla base dello Sherman Act, il magnate si limitò a spostare tutte le attività tra New York e il New Jersey e a sottrarsi al controllo dello stato del Midwest. Ma fu un atto di arroganza che costò caro a Standard Oil (non personalmente a Rockefeller, la cui famiglia sarebbe rimasta ricchissima per tutto il secolo successivo).
Tre nemici risultarono fatali al colosso petrolifero. Il primo si materializzò inaspettato nel settembre 1901, quando l’anarchico Leon Czolgosz sparò al presidente degli Stati Uniti William McKinley, che morì pochi giorni dopo in ospedale. Il suo vice era in vacanza in Vermont e fu fatto cercare per farlo giurare in fretta e furia come presidente, tra i timori degli altri esponenti del partito repubblicano, che lo conoscevano come un irascibile attaccabrighe con cui era difficile lavorare. Si chiamava Theodore Roosevelt e divenne uno dei più popolari e influenti presidenti della storia americana.
Tra le tante cose che Roosevelt non sopportava, c’erano i colossi industriali che non rispettavano le regole. Ben presto si guadagnò la fama di “trust buster” per il suo ricorso intensivo allo Sherman Act. I suoi tre predecessori, sommati insieme, avevano lanciato in totale diciotto indagini antitrust. Roosevelt da solo ne promosse quarantaquattro durante la sua presidenza. La più importante fu quella che prese di mira la Standard Oil, contro la quale scatenò un avvocato che si sarebbe guadagnato a sua volta il soprannome di “trust buster”: Frank Kellogg, futuro segretario di stato e premio Nobel per la pace, che nel 1906 cominciò a indagare sul colosso di Rockefeller e non mollò fino alla sentenza del 1911. C’era anche Kellogg in aula il giorno in cui il giudice White ordinò lo smantellamento di Standard Oil, mentre Roosevelt a quel punto non era più alla Casa Bianca. Gli era succeduto William Taft, che era stato membro del suo governo ma ben presto divenne un nemico per Roosevelt. L’anno dopo la storica sentenza antitrust, l’ex presidente si ricandidò sfidando Taft (un po’ come Donald Trump, che ha in Roosevelt un modello di come si può provare a tornare alla Casa Bianca) e dando vita a un proprio partito “progressista”. Finì male per i due ex colleghi repubblicani diventati rivali: si sottrassero voti a vicenda e a vincere nel 1912 fu il democratico Woodrow Wilson.
Roosevelt e Kellogg furono due nemici che Rockefeller sottovalutò, pensando di potersi sottrarre allo scrutinio della politica e della giustizia con il semplice peso della ricchezza che produceva negli Stati Uniti. Altri settori industriali furono più scaltri di lui, per esempio i re dell’acciaio, che si affidarono alle cure del banchiere J. P. Morgan e alla sua capacità di tenere buone relazioni con il Congresso e il ministero della Giustizia. Anche il terzo nemico che affondò la Standard Oil apparteneva a un mondo con cui Rockefeller non voleva avere niente a che fare: la stampa.
Violare la segretezza che circondava i trust del petrolio divenne infatti l’ossessione di Ida Tarbell, una scrittrice che fu tra i protagonisti del movimento dei “muckrakers”, gli inventori del giornalismo investigativo moderno. Tra il 1902 e il 1904 la Tarbell pubblicò sulla rivista McClure’s una serie di diciannove articoli che svelavano per la prima volta all’America i segreti del network di imprese messo in piedi da Rockefeller. Poi completò l’opera con il libro The History of the Standard Oil Company, che divenne un immediato successo editoriale e fu la base di partenza per le indagini di Kellogg e del ministero della Giustizia, che portarono fino alla sentenza della Corte Suprema.
Lo smantellamento di Standard Oil ha dato vita a un mondo del petrolio concorrenziale che si trasformò presto nelle cosiddette “sette sorelle”. Pezzi del colosso di Rockefeller sono diventati Exxon, Mobil, Amoco, Chevron, Texaco e altre compagnie petrolifere poi tornate a fondersi tra loro. Il caso del 1911 è stato il punto di riferimento per altre grandi offensive antitrust del governo americano, come la decisione di smantellare il monopolio di AT&T, dando vita a tante piccole “Baby Bells” della telefonia. O come gli attacchi al monopolio dell’hardware e del software di Ibm e Microsoft, che non hanno però portato a smembrare le società.
Adesso una nuova generazione di “trust busters” ha messo nel mirino la Silicon Valley e sogna di far fare ai suoi colossi la fine di Standard Oil. Dopo gli anni delle battaglie con Microsoft, i bracci di ferro tra il mondo tech e le autorità di Washington si erano un po’ placati, fino a quando nel 2020 non è arrivato l’attacco a Facebook e a Mark Zuckerberg da parte della Federal Trade Commission (Ftc). L’accusa è molto simile a quella che era toccata a Rockefeller: aver ucciso la concorrenza comprando gli avversari e inglobandoli. Zuckerberg deve rispondere della struttura della sua Meta, che ha dentro Instagram e WhatsApp, cioè realtà che gli facevano concorrenza e che ha assorbito.
Accuse diverse di monopolismo o di concorrenza sleale sono poi arrivate per Alphabet-Google, Amazon e ora Apple, con la complicazione che il loro top manager deve battersi contemporaneamente non solo contro Washington, come ai tempi di Rockefeller, ma anche contro Bruxelles, che è diventata una “trust buster” più esigente ancora degli americani.
Biden non ha certo le caratteristiche di nemico dei magnati che aveva Theodore Roosevelt, ma la sua amministrazione ha un paio di mastini che assomigliano a Frank Kellogg. Uno è Jonathan Kanter, che guida dal novembre 2021 la sezione antitrust del ministero della Giustizia. Le indagini contro Google e Apple portano la sua firma. L’altra è Lina Khan, la presidente della Ftc, che ha invece messo sotto inchiesta Meta e Amazon. Insieme, Kanter e Khan stanno quindi sfidando quattro dei sei colossi del mondo tech americano (mancano Microsoft, che in un certo senso “ha già dato” negli anni Novanta, e Nvidia, il gigante dei microchip, che non ha però una posizione dominante di mercato) e potrebbero ottenere per ciascuno di loro, potenzialmente, uno smembramento in stile Standard Oil. Un percorso nel quale li assiste sul piano accademico il professor Timothy Wu della Columbia Law School, dove è tornato a insegnare da poco dopo aver lavorato per l’amministrazione Biden come architetto di tutta la strategia antitrust del presidente.
Kanter ha firmato il durissimo atto di accusa contro Apple che mette in discussione l’identità e la natura stessa della società e va indietro nel tempo per attribuire pesanti responsabilità allo scomparso Steve Jobs. Secondo la sua lettura, l’azienda degli iPhone e dei Mac ha beneficiato negli anni Novanta proprio dei problemi giudiziari che aveva Bill Gates per colpa dell’antitrust e ha ripreso a prosperare da quel momento in poi, con il ritorno di Jobs a Cupertino. Una versione che gli avvocati della Apple e tutto il suo apparato di comunicazione hanno già cominciato a respingere con veemenza.
Il cinquantenne capo dell’antitrust di Biden viene dipinto come un idealista cresciuto in una famiglia della classe media nel Queens e nelle sue interviste si dice dalla parte dei consumatori, dei lavoratori più umili e in generale della Main Street americana. Anche se qualcuno, con un pizzico di perfidia, fa notare le sue foto sui giornali dove mette in mostra un orologio da polso A. Lange & Söhne da 34 mila dollari, che non è proprio alla portata degli operai del Queens di cui dice di voler tutelare gli interessi.
Il vero nemico di Kanter e Khan è però il tempo. I processi antitrust sono lunghissimi e a novembre un’eventuale elezione di Donald Trump potrebbe azzerare tutto e cambiare completamente l’approccio di Ftc e ministero della Giustizia. Nella Silicon Valley nessuno lo dichiarerà mai apertamente, ma il ritorno dell’ex presidente potrebbe essere la chance migliore che hanno per non fare la fine di Standard Oil.