Vincere per avere futuro. Idee di coraggio e libertà per il dopo Gaza (altro che la Normale)
Le buone proposte di Bret Stephens per un medio oriente libero e senza Hamas. Biden aiuti Israele, e poi “un mandato arabo per la Palestina”. L’analogia falsa e offensiva con la Shoah
Quando per un attimo si ha l’impressione di aver perso la bussola di fronte alle tragedie del medio oriente e quando per un attimo si ha la mente intorpidita dai molti se, dai tanti ma, dai parecchi però e dagli infiniti chissà sul dramma di Gaza c’è una lettura che da molti mesi aiuta regolarmente a ritrovare le parole giuste per osservare senza troppi giri di parole quale sia lo stato dell’arte della guerra combattuta da Israele per difendere la sua stessa esistenza. La lettura fondamentale di cui parliamo – e che consigliamo di cuore a tutti i docenti e agli studenti delle università che alimentano l’odio contro Israele e che continuano a non capire che difendere Israele significa difendere l’occidente, o forse lo capiscono benissimo – è quella di un formidabile commentatore conservatore che da anni ha diritto di tribuna sulle pagine liberal del New York Times. Si chiama Bret Stephens, ha cinquant’anni, è un premio Pulitzer, meriterebbe una cattedra ad honorem alla Normale di Pisa e nei giorni scorsi ha scritto due articoli da incorniciare. L’ultimo articolo è stato pubblicato il 19 marzo e indica una soluzione possibile per il dopo in medio oriente: un’occupazione militare israeliana a tempo indeterminato di Gaza, scrive Stephens, genererebbe un’insurrezione, priverebbe Israele di denaro e personale e alla fine si dimostrerebbe politicamente e diplomaticamente insostenibile; allo stesso tempo, uno stato palestinese a Gaza e in Cisgiordania potrebbe essere attraente in teoria, ma gli israeliani hanno motivo di temere che, in pratica, potrebbe trasformarsi rapidamente in una versione più ampia di un “Hamastan”. Quindi, si chiede il nostro, cosa potrebbe funzionare? Risposta secca: “Un mandato arabo per la Palestina”.
L’ambizione a lunghissimo termine sarebbe quella di trasformare Gaza in una versione mediterranea di Dubai, grazie all’aiuto dei paesi arabi moderati che, in dieci o quindici anni, con una guida diversa da Hamas e con l’aiuto di molti soldi provenienti dalla comunità internazionale, potrebbero consentire a uno stato palestinese di emergere sul modello degli Emirati Arabi Uniti, formando uno stato federato, allergico all’estremismo, aperto al mondo e impegnato per una pace duratura. La chiave, dice Stephens, sta nel persuadere gli stati arabi moderati che hanno la posta in gioco più grande di tutti nel raggiungere un risultato migliore per Gaza: in primo luogo, perché una Gaza controllata da Hamas è un altro avamposto (insieme a Hezbollah in Libano e agli houthi nello Yemen) dei leader iraniani; in secondo luogo, perché una crisi irrisolta a Gaza dividerà anche il mondo arabo, rafforzerà l’Iran e minerà il percorso di modernizzazione intrapreso dai migliori leader arabi.
Il secondo articolo interessante è stato pubblicato il 12 marzo, pochi giorni dopo le prime feroci critiche rivolte dal presidente americano Joe Biden al premier israeliano Benjamin Netanyahu. Biden aveva appena detto che la guerra a Gaza “sta danneggiando Israele più che aiutando Israele”. Il primo ministro israeliano aveva risposto dicendo che Biden aveva torto. Stephens nota che la spaccatura duratura tra i due leader potrebbe significare per Israele perdere il suo più importante pilastro in termini di sostegno militare e diplomatico, ma resta comunque convinto di un’idea che ha più volte esposto nelle sue column e che è la stessa idea che guida il nostro giornale dal 7 ottobre: Israele, e lo sa anche Biden, non ha altra scelta se non quella di distruggere Hamas, e la comunità internazionale deve lavorare per andare in quella direzione.
In quell’articolo Stephens compie un’operazione suggestiva e immagina di rispondere in un dialogo con una persona, un suo alter ego, desiderosa di offrire critiche non ideologiche alla visione suggerita da Stephens. Il dialogo è fantastico.
Prima domanda: no, caro Bret, non sono state le bombe, i missili o l’artiglieria di Hamas a radere al suolo Gaza, è stato Israele. Risposta: è vero. Ma è anche vero che Hamas, che ha dato inizio alla guerra, potrebbe fermare domani questa pioggia di fuoco, mentre invece ha rifiutato un cessate il fuoco di sei settimane che avrebbe messo in pausa i combattimenti e consentito molti più aiuti in cambio del rilascio di circa 40 dei restanti 100 ostaggi israeliani. Potrebbe fermare la lotta facendo semplicemente una cosa: arrendersi.
Seconda domanda. Forse, caro Bret, Hamas non vuole fermare i combattimenti, ma c’è poco che possiamo fare al riguardo. Israele può fermare il suo attacco e quindi risparmiare vite palestinesi. E poiché Biden ha influenza su Israele, dovrebbe usarla. Risposta. Il modo migliore per convincere Hamas a smettere di combattere, caro alter ego, è batterlo. Se Israele dovesse porre fine alla guerra adesso, con diversi battaglioni di Hamas in campo, accadrebbero almeno quattro cose. Quali? Vediamo. In primo luogo, sarebbe impossibile istituire un’autorità politica a Gaza che non sia Hamas: se l’Autorità palestinese o gli abitanti di Gaza provassero a farlo, non vivrebbero a lungo. In secondo luogo, Hamas ricostituirebbe la sua forza militare come fece Hezbollah in Libano dopo la guerra del 2006 con Israele – e Hamas ha promesso di ripetere gli attacchi del 7 ottobre “una seconda, una terza, una quarta” volta. In terzo luogo, gli ostaggi israeliani rimarrebbero bloccati nella loro terribile prigionia per un tempo indefinito. Quarto, non ci sarebbe mai uno stato palestinese. E’ ovvio perché: nessun governo israeliano accetterà uno stato palestinese in Cisgiordania se rischia di somigliare a Gaza.
Domanda, dell’alter ego: ma perché Israele non può essere molto più giudizioso nell’uso della forza? Risposta stizzita di Stephens, contro l’altro se stesso: ha qualche suggerimento specifico su come Israele possa sconfiggere Hamas risparmiando al tempo stesso i civili? Non sono un esperto militare. Ho notato però che ogni volta che i critici di Israele danno lezioni al paese su come calibrare meglio l’uso della forza, non danno alcun suggerimento concreto. Gli israeliani sono abbastanza intelligenti da combattere meglio, ma troppo stupidi per apprezzare le conseguenze diplomatiche del non farlo? Ancora. La maggior parte degli israeliani, nota l’alter ego, se la passa bene adesso. Sono i palestinesi che stanno morendo. Risposta. Israele ha passato gli ultimi cinque mesi a degradare le capacità militari di Hamas al punto che sembra essere a corto di razzi da lanciare contro Israele. E circa 200 mila israeliani vivono come rifugiati all’interno del proprio paese perché i suoi confini non sono sicuri. Nessun paese può tollerarlo. Israele non è nato per mostrare la vittimizzazione degli ebrei. E’ nato per porre fine alla loro vittimizzazione.
La conversazione si conclude con un finale esplosivo. L’altro Stephens chiede al vero Stephens: dal momento che alludi all’Olocausto, sicuramente non può essere nell’interesse di Israele essere visto perpetrarne una versione a Gaza: basta guardare l’esplosione mondiale dell’antisemitismo dal 7 ottobre. Risponde così Stephens: questa analogia è falsa e offensiva su molti livelli. Israele sta combattendo una guerra che non ha cercato, contro un nemico votato alla sua distruzione e che tiene in ostaggio decine di suoi cittadini. Se Israele avesse voluto spazzare via gli abitanti di Gaza come i tedeschi cercavano di spazzare via gli ebrei, avrebbe potuto farlo fin dal primo giorno di guerra. Israele sta combattendo invece una dura guerra contro un nemico malvagio che mette in pericolo i suoi stessi civili. Forse bisognerebbe fare più pressione pubblica su Hamas, affinché si arrenda, che su Israele, per salvare Hamas dalle conseguenze delle sue azioni.
L’esausto altro Stephens chiede al vero Stephens: allora cosa suggerisci di fare all’Amministrazione Biden? Semplice: aiutare Israele a vincere la guerra in modo decisivo affinché israeliani e palestinesi possano un giorno vincere e governare la pace. Le tragedie di Gaza restano lì e spesso fanno vacillare anche chi ama Israele. Ma le parole di Stephens aiutano a ritrovare il punto e a centrare il tema che non si può eludere: si può contestare quanto si vuole l’azione difensiva di Israele, ma se si vuole ottenere una pace duratura in medio oriente occorre rassegnarsi all’idea che quell’obiettivo non sarà raggiungibile se gli ostaggi non saranno riconsegnati, se Hamas non sarà decapitata, se la comunità internazionale non si concentrerà per imporre il cessate il fuoco ai terroristi e non a Israele e se i paesi arabi meno compromessi con Hamas non troveranno il coraggio di aiutare Israele a costruire il dopo Gaza di pace senza se e senza Hamas. Urge un tour di Stephens in tutte le università italiane: chi parte?