rischio escalation
Nasrallah aspetta Khamenei. Israele affronta l'autoanalisi di Tsahal dopo sei mesi di guerra
A sei mesi dal massacro perpetrato da Hamas nel sud di Israele, c’è chi si guarda indietro ed esprime giudizi su risultati raggiunti e disattesi. Le cinque decisioni che Israele dovrà prendere
Tel Aviv. L’allerta resta alta, i “giorni complessi” a cui ha fatto riferimento il capo dell’intelligence militare, Aharon Haliva, non sono ancora “alle nostre spalle”. Ma l’ultimo venerdì di Ramadan è passato senza che la minaccia iraniana facesse registrare attacchi diretti di Teheran su Israele o sulle sue ambasciate nel mondo. Nemmeno l’alleato degli ayatollah, il leader degli Hezbollah libanesi Hassan Nasrallah, ha espresso l’intenzione di entrare nel botta e risposta tra repubblica islamica e stato ebraico dopo l’attacco al consolato iraniano di Damasco. “Solo Khamenei può decidere come, quando e dove” reagire, ha detto Nasrallah, sfilandosi dalla responsabilità di fare altri passi oltre al suo impegno nell’operazione di disturbo di Tsahal sul confine tra Libano e Israele.
A sei mesi dal massacro perpetrato da Hamas nel sud di Israele, c’è chi si guarda indietro ed esprime giudizi su risultati raggiunti e disattesi. E chi parte dalle considerazioni del semestre alle spalle per analizzare con lucidità il futuro. Tra le voci più esperte e razionali Amos Yadlin, ex capo dell’intelligence militare israeliana, tratteggia “cinque importanti decisioni” che il gabinetto di guerra dovrebbe affrontare per rivedere la strategia e la condotta del conflitto. L’aggiornamento degli obiettivi della guerra nella Striscia, il dopoguerra a Gaza, il fronte nord al confine con il Libano, le relazioni tra Israele e Stati Uniti e il problema dell’Iran sono i cinque pilastri su cui, dice l’analista, il governo guidato dal premier Benjamin Netanyahu dovrebbe concentrare l’attenzione adesso.
Yadlin, tra i primi a condividere valutazioni su quanto stava accadendo, quasi in tempo reale, nelle prime ore dopo i pogrom del 7 ottobre nel sud di Israele, aveva espresso da subito i suoi dubbi sul fatto che distruggere totalmente Hamas fosse un obiettivo realistico per questa guerra. Oggi suggerisce di fermarsi a riflettere su cosa possiamo invece ritenere “abbastanza” per garantire che un attacco così non si ripeta mai più. “Credo – dice in un briefing per la stampa a cui ha partecipato il Foglio – che potremmo anche tollerare la presenza di quattro battaglioni a Rafah. Riportare a casa gli ostaggi, invece, dovrebbe essere adesso l’obiettivo numero uno, intorno al quale rimodulare la strategia militare”. Per restare nell’enclave costiera, Yadlin ritiene anche che sia plausibile doversi rassegnare al fatto che “alcuni elementi di Hamas” rimarranno a Gaza anche nel “day after”. “Dobbiamo essere onesti – dice – Non si possono cambiare le loro teste, i loro sentimenti e la loro ideologia”. A fronte di una popolazione palestinese che, sondaggi alla mano, continua a sostenere la fazione islamista, ciò che ne resterà sarà una versione “molto indebolita”. “Ciò che conta, e su cui dobbiamo porci delle domande – sottolinea l’analista –, è chi si prenderà la briga di controllare e tenere a bada Hamas”.
Quali decisioni prendere sul fronte del nord, che tanto occupa l’attenzione del ministro della Difesa Yoav Gallant, è la terza questione che Yadlin pone all’ordine del giorno. Anche qualora si arrivasse a un cessate il fuoco con un accordo tra Israele e Hamas su Gaza che si estendesse al confine tra stato ebraico e forze di Hezbollah nel sud del Libano, “siamo certi – si chiede l’ex militare – che i residenti potrebbero tornare a vivere nelle loro case e sentirsi al sicuro?” Hezbollah è stato colpito, “ma non abbastanza” dice. Pertanto “la popolazione israeliana non tornerà nei villaggi e nelle città finché non riceverà maggiori garanzie, che siano diplomatiche o militari, che a Nasrallah sia impedito di mettere in atto ciò che Sinwar ha compiuto giù al sud”.
Sul capitolo “rapporti tra Stati Uniti e Israele”, che all’inizio della guerra erano ottimi, Yadlin non vede criticità nell’alleanza rispetto ai due obiettivi della guerra, di smantellare Hamas e riportare in patria gli ostaggi. “Tuttavia Israele e Stati Uniti si trovano in forte disaccordo su molte cose, dall’operazione di terra a Rafah allo scenario post bellico nella Striscia, dalle questioni umanitarie ai danni collaterali. Ed è facile immaginare che in futuro un altro terreno di disaccordo sarà la ricostruzione di Gaza”, osserva. Ma ciò su cui il generale in pensione mostra preoccupazione è il calo di fiducia tra le due amministrazioni, “e questo è qualcosa che dovrebbe essere risolto e riparato piuttosto rapidamente”. Il cappello sopra lo scenario a cui stiamo assistendo, dopo sei mesi e soprattutto in questi giorni, “credo che ormai sia evidente a tutti – dice – è quello di Teheran”. E’ l’Iran a beneficiare principalmente del fatto che l’attenzione di Israele sia stata dirottata sul fronte di Gaza, “mentre tutto il mondo continua a ignorare il suo avanzamento nel programma di sviluppo di armi nucleari”.
Si potrebbe aggiungere, alla valutazione dell’ex capo dell’intelligence della Difesa, una riflessione sull’impatto che questi sei mesi di conflitto inatteso stanno provocando nella struttura di Tsahal. Il conflitto ha imposto un’accelerazione di cambiamento e di autoanalisi della conformazione dell’esercito che, più di tutti al mondo, viene sottoposto alle lenti degli stereotipi, sia all’interno sia all’esterno di Israele. Le falle causate dall’eccessivo affidamento sull’alta tecnologia più che sulle più tradizionali tecniche di humint sono state le prime a emergere. La necessità di espandere e diversificare la composizione delle forze (un maggior numero di donne e di ebrei ortodossi) a beneficio di una maggiore uguaglianza sociale sta richiedendo uno sforzo di immaginazione da parte dell’establishment militare per creare condizioni accessibili e accettabili per tutti. Gli errori – “inaccettabili” a detta di tutti, israeliani per primi – che hanno segnato alcune delle peggiori giornate sul campo di battaglia a Gaza hanno dimostrato invece che i valori etici di Tsahal resistono alle pressioni. L’ammissione di colpa, sia quando nel mirino sono finiti tre ostaggi israeliani a dicembre sia nel più recente tragico attacco sugli operatori umanitari dell’ong Word Central Kitchen, non riporta in vita i morti ma dice molto sulla trasparenza e sull’attendibilità dell’esercito, anche come fonte di informazione.