Palestinesi in mezzo alle macerie lasciate dall’offensiva aerea e terrestre israeliana a Khan Younis (AP Photo/Ismael Abu Dayyah) 

a sud di gaza

L'esercito israeliano lascia Khan Younis

Micol Flammini

A sei mesi dall'inizio del conflitto, Tsahal porta via i suoi dal sud di Gaza e lascia una brigata lungo il corridoio che taglia in due la Striscia. L'operazione a Rafah si allontana, le speranze per un accordo sugli ostaggi sono ancora vaghe. Non è la fine della guerra

A sei mesi dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas, l’esercito di Gerusalemme ha ritirato i suoi soldati da Khan Younis, la città del sud in cui i combattimenti sono durati quattro mesi, dove la rete di gallerie sotterranee è vasta e dove l’attacco ha avuto anche un valore simbolico, perché Khan Younis è la città di origine di Yahya Sinwar, il leader di Hamas rimasto nella Striscia a coordinare le operazioni del gruppo e sempre dalla Striscia è lui che ha l’ultima parola sui negoziati per un cessate il fuoco e la liberazione degli oltre centotrenta ostaggi israeliani che si stanno tenendo al Cairo

  

Il ritiro non è una sorpresa, la decisione dell’esercito risponde a quanto Tsahal ha già fatto in precedenza al nord e a quanto aveva annunciato. Due mesi fa i soldati hanno effettuato un ritiro simile da Gaza City e la stessa decisione è stata presa per la 98esima divisione che ha portato avanti le operazioni a Khan Younis. Adesso Tsahal è rimasto con soltanto una brigata lungo il corridoio che taglia la parte nord della Striscia dal sud, che dal confine con Israele corre verso il mare

    

La guerra è già cambiata rispetto ai primi mesi, Tsahal a nord della Striscia ha condotto una campagna molto diversa rispetta a quella per settori iniziata a Khan Younis, l’esercito ha sempre parlato di una campagna in fasi e adesso potrebbe essere arrivato il momento di operazioni più piccole, mirate, di una presenza meno costante, di uomini che si spostano da Israele alla Striscia costantemente. Le truppe si riorganizzano, si spostano, ma dall’esercito e dal governo nessuno parla della fine della guerra

  

Il ritiro della 98esima divisione potrebbe lasciar intendere che qualcosa nei negoziati stia cambiando, che un accordo per il ritorno degli ostaggi è più vicino e comprenderebbe la liberazione di almeno una parte dei prigionieri israeliani – non si sa quanti siano vivi e quanti morti – un cessate il fuoco di circa un mese, la scarcerazione di centinaia di detenuti palestinesi e anche il movimento dei gazawi nella Striscia e il loro ritorno nella parte settentrionale. Fonti sulla stampa egiziana riferiscono speranzose che tra due giorni le delegazioni si incontreranno ancora al Cairo, ma Israele e Hamas dicono che le parti sono ancora distanti e l'accordo è tutt'altro che vicino.  

 

Il ministro della Difesa Yoav Gallant e il capo dell’esercito Herzi Halevi hanno sottolineato che questa non è la fine della guerra, che sarà lunga e Tsahal si organizza ancora per entrare a Rafah, la città del sud della Striscia dove si sono ammassati i rifugiati palestinesi, dopo la quale c’è soltanto l’Egitto, ma che nasconde nei suoi sotterranei quattro battaglioni di Hamas. Uno degli obiettivi dell’esercito è eliminare l’organizzazione e non potrà ritenere l’obiettivo raggiunto se i quattro battaglioni rimangono a Rafah, dove hanno ricevuto rifornimenti e dove probabilmente sono cresciuti di numero aggiungendo alle loro fila anche uomini di altri battaglioni sopravvissuti ai combattimenti. 

 

L’operazione a Rafah è più complicata rispetto alle altre, il metodo usato a Khan Younis di dividere la città in settori dovrebbe essere potenziato. L'esercito ha accumulato informazioni di intelligence utili a localizzare Hamas, ma per entrare a Rafah deve prima occuparsi dello spostamento importante di circa un milione e mezzo di civile, della creazione di zone sicure in cui i palestinesi non vengano toccati dai combattimenti, di un coordinamento con l’esercito egiziano che si trova giusto al di là dal confine e di una mobilitazione di truppe che ora sono o a riposo o impegnate sugli altri fronti. Un accordo sul cessate il fuoco ritarderebbe l’operazione.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)