Ayatollah al bivio
Dopo il raid sul consolato, Khamenei tra la ricerca di un patto e una vendetta-suicidio
Un’indicazione del fatto che Teheran starebbe cercando una soluzione diversa da una guerra con Israele che non si può permettere viene dai colloqui indiretti ma intensissimi tra Stati Uniti e Iran degli ultimi dieci giorni
Ieri l’intelligence americana ha ridimensionato l’allarme su un possibile attacco iraniano contro Israele dicendo che, quando la vendetta per il raid di Tsahal che ha polverizzato il consolato di Teheran a Damasco arriverà, probabilmente sarà ad opera delle milizie amiche dell’Iran e non sarà un attacco dal territorio della Repubblica islamica. Il giorno prima il figlio di Mohammed Reza Zahedi, il generale pasdaran morto sotto le macerie del consolato raso al suolo, aveva detto: “La mia famiglia non chiederà che mio padre venga vendicato a meno che non lo faccia la Guida suprema per prima”.
Da giorni Hassan Nasrallah – il leader della milizia preferita di Teheran, Hezbollah – è molto citato per aver detto che “Ali Khamenei ha deciso di rispondere direttamente (non tramite interposta milizia) al raid israeliano su Damasco”, ma nello stesso discorso Nasrallah aggiungeva: “Ci potrebbero volere un giorno, una settimana, un mese o un anno perché gli iraniani non sono come noi arabi, sono poco impulsivi e si muovono lentamente”. La Repubblica islamica dà segnali contrastanti per prassi e per strategia: manda avanti qualcuno a promettere fuoco e fiamme e poi qualcun altro a spegnere l’incendio. E’ un modo per provare a confondere i nemici e per tenersi le mani libere.
Un’indicazione del fatto che Teheran starebbe cercando una soluzione diversa da una guerra con Israele che non si può permettere viene dai colloqui indiretti ma intensissimi tra Stati Uniti e Iran degli ultimi dieci giorni. Subito dopo il raid contro il consolato in Siria, la Casa Bianca e la Repubblica islamica si sono scambiate messaggi tramite l’ambasciata svizzera a Teheran. L’Amministrazione Biden ha recapitato una lettera che, prendendo a prestito le parole dei funzionari americani, si può riassumere così: non c’entriamo, non abbiamo autorizzato l’attacco al consolato e non sapevamo in anticipo che ci sarebbe stato. Tre giorni fa il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian è volato in Oman, che come la Svizzera fa spesso da ambasciatore per le comunicazioni tra i governi americani e le autorità della Repubblica islamica. E, come ha riportato la testata Amwaj, ieri Amir-Abdollahian ha ottenuto un visto dal dipartimento di stato per poter viaggiare a New York e partecipare a un’assemblea delle Nazioni unite la settimana prossima. Il Palazzo di vetro dell’Onu è un’altra delle sedi dei colloqui informali tra i due paesi che hanno interrotto le relazioni diplomatiche nel 1979 ma che dal 7 ottobre del 2023 si parlano spesso.
Javad Zarif, l’ex ministro degli Esteri e architetto dell’accordo sul nucleare iraniano sottoscritto dall’Amministrazione Obama, un riformista che i conservatori al governo in Iran mandano avanti quando hanno bisogno di parlare con l’occidente, ha detto in un’intervista: “E’ possibile e utile ridurre la tensione e gestire il conflitto con gli Stati Uniti per risolvere questioni specifiche, lo abbiamo fatto per l’Afghanistan e ora dovremmo farlo per Gaza”. Il giornalista Ali Hashem ha pubblicato un scoop ripreso dalle testate di buona parte del mondo scrivendo che l’Iran ha chiesto agli americani di ottenere un cessate il fuoco a Gaza perché permetterebbe a Teheran di non rispondere all’attacco contro il consolato di Damasco e rimangiarsi le minacce senza perdere la faccia. Biden il cessate il fuoco lo aveva appena chiesto, ed è probabile che Teheran abbia contato sul fatto che gli americani stessero già facendo molta pressione per un accordo tra Hamas e Israele per intestarsi un pezzettino dell’eventuale successo. Secondo questa ricostruzione, gli ayatollah sperano di poter propagandare presto questa versione: rimandiamo la vendetta per non interrompere la tregua e per non mettere a repentaglio le vite dei gazawi, che abbiamo contribuito a salvare.
Come ha ricordato l’esperto iraniano-canadese Shahir Shahidsaless in una lunga analisi che ripercorre tutti i momenti di tensione per l’Iran, da quando Ali Khamenei è la Guida suprema del paese la Repubblica islamica fugge l’ipotesi di una guerra convenzionale con un nemico temibile. Khamenei ha sempre tenuto questa linea ma ha ancora più interesse a farlo oggi che il suo paese si ribella con le proteste e con le azioni violente dei separatisti. Ieri cinque poliziotti iraniani sono stati uccisi nella provincia irrequieta del Sistan e Baluchistan. Tre giorni prima altri due agenti erano stati ammazzati e la settimana scorsa i terroristi sunniti di Jaish al Adl avevano ucciso quindici persone in vari attacchi simultanei contro installazioni militari e commissariati nel Sistan e Baluchistan.
Da decenni allo scontro diretto l’Iran preferisce la guerra ombra e le operazioni ambigue, e ieri un’esclusiva del New York Times molto dettagliata ha confermato le accuse dell’Autorità palestinese e di Israele: c’è Teheran dietro il flusso di armi che negli ultimi ventiquattro mesi hanno inondato la Cisgiordania. Soprattutto fucili automatici e mine anticarro che finiscono ai gruppi informali di palestinesi giovanissimi e alle reclute di Hamas fuori dalla Striscia di Gaza.