la minaccia
Cancellare Israele, una distopia del 2006
L’incubo di un secondo Olocausto, “magari nel pieno di una crisi regionale”, dopo che l’Iran si sarà dotato della Bomba
Il secondo Olocausto sarà ben diverso. Un bel giorno, tempo cinque o dieci anni, magari nel pieno di una crisi regionale, o quando meno ce lo aspetteremo, un giorno o un anno o cinque anni dopo che l’Iran si sarà dotato della Bomba, i mullah di Qom convocheranno una seduta segreta, sulla quale campeggerà il ritratto dell’ayatollah Khomeini, con i suoi occhi di ghiaccio, per dare il placet al presidente Ahmadinejad, giunto oramai al secondo o al terzo mandato. Tutti i comandi saranno eseguiti, i missili Shihab-3 e 4 saranno lanciati verso Tel Aviv, Beersheba, Haifa, Gerusalemme e, probabilmente, anche contro alcuni campi militari, comprese le sei basi aeree e missilistiche nucleari (o presunte tali) di Israele. Qualche missile sarà dotato di testata nucleare, in qualche caso addirittura multipla. Altri saranno di tipo standard, muniti solamente di agenti chimici o batteriologici, o stipati di vecchi giornali, per scalzare o spiazzare le batterie anti-missilistiche e le unità dell’esercito israeliano.
Per un paese delle dimensioni e la conformazione di Israele (una striscia di terra oblunga di circa 21 mila chilometri quadrati), quattro o cinque lanci saranno probabilmente sufficienti. E addio Israele. Un milione o più di israeliani, nelle maggiori aree di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme, periranno sul colpo. Milioni saranno gravemente irradiati. Israele conta sette milioni di abitanti circa. Nessun iraniano vedrà né toccherà alcun israeliano. Tutto si svolgerà in modo molto impersonale.
Danni collaterali. Ci saranno inevitabilmente anche morti di nazionalità araba. Circa 1,3 milioni di abitanti di Israele sono arabi e altri 3,5 milioni vivono nelle aree ancora in parte occupate della Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Gerusalemme, Tel Aviv, Jaffa e Haifa contano nutrite minoranze arabe. E attorno a Gerusalemme (vedi El Bireh, vicino a Ramallah, Bir Zeit e Betlemme) e Haifa sorgono vaste aree a densa popolazione araba. Anche qui saranno in moltissimi a morire, sul colpo o poco a poco.
E’ improbabile che un simile massacro nei confronti dei correligionari musulmani possa turbare Ahmadinejad e i mullah. Gli iraniani non amano particolarmente gli arabi, soprattutto i sunniti, contro cui, per secoli, hanno combattuto a intermittenza. E nutrono particolare disprezzo per i palestinesi sunniti che, in fin dei conti, pur essendo inizialmente dieci volte più numerosi degli ebrei, nel corso di un conflitto che si è protratto per anni non sono riusciti a impedire loro di fondare lo stato ebraico, né di prendere possesso di tutta la Palestina. Di più, i leader iraniani considerano la distruzione di Israele come un supremo comando divino, l’araldo della Seconda Venuta, e la morte collaterale degli islamici come il sacrificio di shuhada (martiri) sull’altare di una causa nobile. In ogni caso, il popolo palestinese, sparso un po’ in tutto il mondo, sopravvivrà, assieme alla grande nazione araba di cui è parte integrante. E va da sé che, per liberarsi dello stato ebraico, gli arabi devono essere pronti a qualche sacrificio. E il gioco, considerandolo nel bilancio generale, vale la candela. (…)
Rischio calcolato. A giudicare dai continui riferimenti, da parte di Ahmadinejad, alla Palestina e all’urgenza di distruggere Israele, e dalla negazione, di cui si è fatto portavoce, del primo Olocausto, si direbbe che l’uomo sia ossessionato. Tratto che condivide con i mullah: entrambi vengono dalla scuola di Khomeini, prolifico antisemita noto per le folgori scagliate contro il “piccolo Satana”. E a giudicare dal concorso, da lui promosso, per le vignette sulla Shoah, o dalla Conferenza sull’Olocausto (appena conclusasi), emerge un presidente iraniano arso da un vortice di odio profondo (oltreché, naturalmente, insolente).
Ahmadinejad, infatti, è pronto a mettere a repentaglio il futuro dell’Iran, se non addirittura di tutto il medio oriente musulmano, in cambio della distruzione di Israele. Non v’è alcun dubbio che egli creda che Allah, in un modo o nell’altro, proteggerà l’Iran da una risposta nucleare israeliana o da un’eventuale controffensiva Usa. E, Allah a parte, è facile che egli creda che i suoi missili polverizzeranno lo stato ebraico, annienteranno i suoi leader, distruggeranno le basi nucleari terrestri e demoralizzeranno o spiazzeranno i comandanti dei sottomarini nucleari in modo così drastico ed efficace da neutralizzare qualsivoglia reazione. E, con il suo profondo disprezzo per il pavido Occidente, è improbabile che il leader iraniano prenda in seria considerazione la minaccia di una rappresaglia nucleare Usa.
Ma può anche darsi che egli sia consapevole del rischio di un contrattacco e si professi tout court – e, secondo il nostro modo di pensare, in modo assolutamente irrazionale – disposto a pagarne le conseguenze. Come il suo mentore Khomeini ebbe a dire, nel 1980, durante un discorso ufficiale a Qom: “Noi non veneriamo l’Iran, ma Allah… Per questo dico: che questa terra bruci. Che vada in fumo, purché l’Islam ne esca trionfante…”. Per tali cultori della morte, persino il sacrificio della propria patria vale bene la cancellazione di Israele.
Come il primo, anche il secondo Olocausto sarà preceduto da lustri di indottrinamento dei cuori e delle menti da parte di leader arabi e iraniani, intellettuali occidentali e sfoghi mediatici. Il messaggio è cambiato a seconda del pubblico ma, di fatto, l’obiettivo di fondo è stato sempre lo stesso: la demonizzazione di Israele. Ai musulmani di tutto il mondo è stato insegnato che “i sionisti e gli ebrei incarnano il male” e che “Israele dovrebbe essere distrutto”. E agli occidentali, in modo più subdolo, è stato inculcato che “Israele è uno Stato tiranno e razzista” che “nell’età del multiculturalismo, è inutile e anacronistico”. Varie generazioni di musulmani – e almeno una di occidentali – sono state indottrinate a suon di dogmi simili.
La comunità internazionale. La campagna per il secondo Olocausto (che, tra l’altro, alla fine provocherà all’incirca tanti morti quanti ne fece il primo) si è svolta in una comunità internazionale lacerata e guidata da ambizioni egoistiche e discordanti, con Russia e Cina ossessionate dalle prospettive di mercato nei paesi musulmani, la Francia dal petrolio arabo e gli Usa portati, dopo la débâcle irachena, a un profondo isolazionismo. L’Iran è stato lasciato libero di proseguire sulla china del nucleare, e la comunità internazionale non è intervenuta nello scontro tra Israele e il regime degli Ayatollah.
Ma uno stato israeliano sostanzialmente isolato – come un coniglio improvvisamente abbagliato dai fari di una macchina – non può essere all’altezza della situazione. La scorsa estate, guidato da un mediocre politicante come primo ministro e da un sindacalista da strapazzo come ministro della Difesa, schierando un esercito addestrato per gestire le inesperte e sguarnite bande palestinesi nei Territori occupati (e troppo intento a fare fronte a eventuali disgrazie o a provocarle), Israele è uscito perdente da un mini-conflitto di appena trentaquattro giorni contro una piccola guerriglia di fondamentalisti libanesi spalleggiata dall’Iran (sebbene molto motivata e ben addestrata e armata). Quell’episodio ha totalmente demoralizzato la leadership politica e militare israeliana.
Da allora, i ministri e i generali israeliani, così come i loro omologhi occidentali, assistendo al graduale approvvigionamento di armi letali a Hezbollah da parte dei fiancheggiatori di quest’ultimo, sono divenuti sempre più sfiduciati e pessimisti. Paradossalmente, è addirittura possibile che i leader israeliani abbiano gradito gli appelli alla moderazione da parte dell’Occidente. E, con ogni probabilità, hanno voluto disperatamente credere alle promesse occidentali che qualcuno – l’Onu, il G7 – in un modo o nell’altro avrebbe cavato la castagna radioattiva dal fuoco. C’è stato addirittura chi ha abboccato alla bislacca promessa di un cambio di regime a Teheran il quale, pilotato dal cosiddetto ceto medio laico, avrebbe progressivamente messo il bastone tra le ruote al fanatismo dei mullah.
Nucleare. Ma, fatto ancor più rilevante, il programma iraniano ha costituito una sfida infinitamente complessa per un paese con risorse militari limitate e di tipo convenzionale qual è Israele. Prendendo l’imbeccata dall’operazione con cui l’Aeronautica militare israeliana, nel 1981, riuscì a distruggere il reattore nucleare iracheno di Osiraq, gli iraniani hanno raddoppiato e dislocato i propri impianti, nascondendoli anche molti metri sottoterra (e a ciò va aggiunto il fatto che la distanza tra Israele e gli obiettivi iraniani è doppia rispetto a quella con Bagdad). Per smantellare con le armi convenzionali gli impianti iraniani conosciuti, occorrebbe una capacità aeronautica pari a quella Usa impegnata giorno e notte, e per oltre un mese. Nella migliore delle ipotesi, l’aeronautica, la marina e il commando israeliano potrebbero sperare di fermare solo in parte il progetto iraniano. Il quale, tutto sommato, non subirebbe sostanziali modifiche. Con gli iraniani ancora più determinati (ammesso che ciò sia possibile) a sviluppare quanto prima la Bomba. (Altra conseguenza immediata sarebbe senz’altro una nuova campagna terroristica di stampo islamista e su scala globale contro Israele – e forse anche contro i suoi alleati occidentali – assieme, naturalmente, a un’involuzione pressoché generale. Manipolati da Ahmadinejad, tutti rivendicherebbero che il programma iraniano aveva scopi pacifici). Tutt’al più, un attacco convenzionale da parte di Israele potrebbe procrastinare il progetto iraniano di uno o due anni.
Opzioni. In quattro e quattr’otto, dunque, la sprovveduta leadership di Gerusalemme si troverà davanti a uno scenario apocalittico, sia che lanci un’offensiva convenzionale dagli effetti marginali, sia che opti per un attacco nucleare preventivo contro gli impianti iraniani, alcuni dei quali situati vicino o dentro alle principali città. Ne avrebbe il fegato? La sua determinazione a salvare Israele basterebbe a giustificare l’attacco preventivo, con la conseguente morte di milioni di iraniani e, di fatto, la distruzione dell’Iran?
Il dilemma è stato rigorosamente chiarito già molto tempo fa da un generale molto saggio: l’arsenale nucleare israeliano a nulla può servire. Può soltanto essere schierato “troppo presto” o “troppo tardi”. Il momento “giusto” non arriverà mai. Se schierato “troppo presto”, ossia prima che l’Iran si fosse procurato gli ordigni nucleari, Israele sarebbe stato degradato a paria nello scacchiere internazionale, bersaglio della furia della comunità musulmana mondiale, senza più alcun paese disposto a spalleggiarlo. Schierarlo “troppo tardi”, invece, vorrebbe dire colpire ad attacco iraniano già avvenuto. E a che pro?
I leader israeliani, quindi, stringeranno i denti sperando che, in qualche modo, le cose si aggiustino da sé. Magari, una volta ottenuta la Bomba, gli iraniani si comporteranno in modo “razionale”?
Catastrofe. Ma questi ultimi sono guidati da una logica superiore. Lanceranno i loro missili. E, come per il primo Olocausto, la comunità internazionale non muoverà un dito. Tutto avverrà, per Israele, in pochi minuti; non come negli anni 40, quando il mondo stette cinque lunghi anni a torcersi le mani senza battere ciglio. Dopo i lanci di Shihab, la comunità internazionale manderà navi di soccorso e assistenza medica per quanti sopravvivranno alle esplosioni. Ma non attaccherà l’Iran. Quale sarebbe il prezzo? E il tornaconto? Optando per una controffensiva nucleare, gli Usa si alienerebbero definitivamente l’intero mondo musulmano, esasperando e generalizzando il già acceso scontro di civiltà. Ovviamente, senza potere riportare in vita Israele. (Forse che impiccando un serial killer si fanno rivivere le sue vittime?). E allora che senso avrebbe?
Il secondo Olocausto, però, sarà diverso nel senso che Ahmadinejad non vedrà né toccherà concretamente gli individui di cui sogna tanto la morte (il che – qualcuno potrebbe congetturare – potrà cagionargli una delusione dato che, negli anni in cui ha prestato servizio con gli squadroni della morte iraniani in Europa, ha probabilmente preso gusto per il sangue vero). (…)
Nel prossimo Olocausto non vedremo vittime e carnefici coperti di sangue (anche se, a giudicare dalle immagini di Hiroshima e Nagasaki, le conseguenze delle esplosioni nucleari possono essere altrettanto devastanti). Ma sarà comunque un Olocausto.
Questo articolo dello storico israeliano Benny Morris è stato pubblicato dal Jerusalem Post nel 2006.