il raj dei miliardari
Così la diseguaglianza economica ha trasformato l'India e anche la gestione del potere politico
Oggi il subcontinente comincia a votare. Sette fasi elettorali, un milione di seggi, l’obiettivo del governo: renderla la terza economia del mondo. L’esito il 4 giugno. Il premier Nerendra Modi vuole il terzo mandato e ha ottime probabilità di riuscirci
Oggi si comincia a votare in India per la nuova Lok Sabha, il diciottesimo Parlamento della Repubblica indiana. Le elezioni si svolgeranno in sette fasi e si concluderanno il primo giugno. 969 milioni di elettori sono chiamati alle urne. I seggi elettorali (1.050.000) saranno disseminati lungo tutta la penisola: a nord, sulle pendici himalayane; a ovest nelle pianure desertiche; nel centro, tra le giungle tropicali; e a sud, lungo le coste bagnate dall’oceano. Le elezioni in India sono uno spettacolo grandioso. Una gigantesca festa politica collettiva. La partecipazione delle donne ai comizi e al voto è straordinaria. Nelle ultime elezioni (2019) l’affluenza femminile ha superato quella degli uomini (67,18 per cento contro il 67,10). Le prime elezioni politiche si tennero in India tra l’ottobre 1951 e il febbraio 1952. Le cronache dell’epoca raccontano che a Khargapur, una cittadina dell’Andhra Pradesh, durante un comizio elettorale di Jawaharlal Nehru, una giovane donna ebbe le doglie. Un gruppo di donne le formò un cerchio attorno e la giovane partorì mentre Nehru, dagli altoparlanti, prometteva una nuova India, laica, socialista e democratica.
All’annuncio della data delle elezioni di quest’anno il primo ministro Narendra Modi, si è detto sicuro di ottenere un nuovo mandato, il terzo consecutivo, cosa riuscita solo a Nehru, il primo capo del governo dell’India indipendente. “Noi, il Bjp e la sua National Democratic Alliance (Nda) – ha detto Modi – siamo pronti. Ci presenteremo agli elettori forti dei risultati raggiunti con il nostro buon governo. Il popolo rifiuterà ancora una volta l’alleanza dei partiti di opposizione, un gruppo senza una guida e senza un programma, capeggiato da un Partito del Congresso dinastico e corrotto”. Modi ha poi affermato che “nei prossimi cinque anni, l’India vedrà una trasformazione, una crescita, un’espansione e una prosperità senza precedenti”. “Per noi – ha continuato il primo ministro – queste elezioni non significheranno solo formare un governo per la terza volta. Vorranno dire anche fare di questo paese la terza economia più grande del mondo”. Gli ha fatto eco la ministra delle Finanze Nirmala Sitharaman. Presentando a febbraio la legge finanziaria (un “interim budget” a causa delle elezioni in corso) ha detto: “Nel 2014, quando il nostro partito e i suoi alleati hanno assunto il potere, il prodotto interno lordo dell’India era all’undicesimo posto nel mondo. Durante il nostro secondo mandato, malgrado una pandemia senza precedenti, siamo diventati la quinta economia mondiale. Nei prossimi cinque anni faremo di tutto per raggiungere l’obiettivo che si è prefissato il nostro primo ministro: diventare la terza economia del pianeta dietro solo a Stati Uniti e Cina”.
All’inizio degli anni Novanta il pil indiano si trovava al diciassettesimo posto nella graduatoria mondiale. Oggi è al quinto. I progressi avvenuti sono innegabili. Ma se si esamina l’India dal punto di vista del suo reddito pro capite, le cose cambiano drasticamente. All’inizio di quegli stessi anni Novanta il reddito pro capite dell'India era al 161esimo posto nel mondo. Oggi, nel 2024, è al 159esino. Mentre il pil indiano, in questo intervallo di tempo, è salito di molti posti in classifica, il reddito pro capite è rimasto sostanzialmente nella stessa posizione. Si potrebbe pensare che la cosa sia dovuta all’aumento della popolazione, ma non è così. La Cina, negli ultimi 30 anni, ha avuto una popolazione superiore a quella dell’India che, solo nell’ultimo anno, l’ha sorpassata. Dal 1991 al 2021, il pil della Cina è passato dall’undicesimo posto al secondo e il suo reddito pro capite dal 158esimo posto al 75esimo. Cosa tutto questo significhi lo ha spiegato in un articolo il professor Maitreesh Ghatak della London School of Economics. L’articolo si intitola “Sono i ricchi a far crescere il pil dell’India”. Scrive il professore: “Se il reddito del 10 per cento più ricco della popolazione cresce del 10 per cento e quello delle altre persone rimane invariato, anche il pil del paese crescerà del 10 per cento, ma il suo reddito pro capite aumenterà solo dell’1 per cento. […] In presenza di forti disuguaglianze il pil di una nazione non è una misura attendibile per capire la qualità della vita della persona media”. Il professore sottolinea come le grandi aziende multinazionali, sempre alla ricerca di nuovi mercati, vedono con favore questo modello economico indiano che crea forti disparità. “I vantaggi della crescita dell’India sono finiti nelle mani di un piccolo segmento della popolazione. Ma anche solo il quattro o cinque per cento di una popolazione di quasi un miliardo e mezzo di persone costituisce un mercato pari alla popolazione della Francia o della Germania e, a questi ricchi indiani, si possono vendere automobili di lusso e sofisticati smartphone”.
Con un discorso più semplice, Rahul Gandhi ha spiegato la cosa in un incontro che ha avuto alla fine dello scorso anno con gli studenti della Harvard University. Ha detto: “Sono sicuro che molti di voi hanno sentito parlare di un certo signor Adani. Tutti sanno che è strettamente legato al primo ministro dell’India. I nostri porti, i nostri aeroporti, le infrastrutture del paese, l’agricoltura, le miniere, l’energia sono tutti nelle sue mani. Con questo livello di concentrazione, è evidente che si ha la crescita, ma così non ci può essere nessuna distribuzione della ricchezza”. In uno studio firmato da Thomas Piketty (Paris School of Economics), Lucas Chancel (Harvard Kennedy School) e Nitin Kumar Bharti (New York University) si afferma che “l’uno per cento della popolazione indiana detiene il 22,6 per cento del reddito e il 40,1 per cento della ricchezza dell’intero paese. Si tratta del livello storico mai raggiunto in India da quando esistono i dati relativi al reddito e alla distribuzione della ricchezza. Nella stessa epoca coloniale (1922) il reddito dell’uno per cento più ricco del paese ammontava al 13 per cento del totale. Oggi il divario tra ricchi e poveri in India è enorme. L’India di Narendra Modi è diventata un ‘Billionaire Raj’, il raj (il ‘regno’) dei miliardari”.
La festa pre matrimoniale di Anat Ambani racconta bene il paese. Assieme ai cosiddetti “bond elettorali”
L’indiano Mukesh Ambani, il proprietario di Reliance Industries, è oggi l’uomo più ricco dell’Asia. Il secondo più ricco del continente asiatico è un altro indiano, Gautam Adani dell’Adani Group, il personaggio accusato di aver manipolato il valore delle azioni della sua holding e di avere, per anni, commesso frodi fiscali. Altri appartenenti al “raj” dei miliardari indiani sono gli imprenditori Lakshmi Mittal (Arcelor Mittal), Savitri Devi Jindal (OP Jindal Group), Kumar Mangalam Birla (Birla Group), e molti altri ancora. Il capitale di questi imprenditori è cresciuto in maniera esponenziale sotto il regime di Narendra Modi. Tra questi industriali e il primo ministro esiste un “do ut des” molto preciso. Nel 2018, il governo Modi ha istituito un sistema di finanziamento dei partiti politici basato sugli “electoral bond”. Chiunque poteva acquistare anonimamente queste obbligazioni emesse esclusivamente dalla State Bank of India e versarle al partito politico di sua preferenza. Dal 2018 a oggi sono stati emessi bond elettorali per un valore di 160 miliardi di rupie, quasi due miliardi di dollari. Di questi, il 56,5 per cento è finito nelle casse del Bjp, il partito di governo. Il Partito del Congresso, il principale partito di opposizione, ne ha ricevuto il 9,9 per cento. Seguono, con percentuali decrescenti, i vari partiti regionali. Dopo sei anni di questa discutibile pratica, la Corte suprema indiana si è finalmente accorta che la procedura era illegale in quanto, con il suo anonimato, violava il diritto all’informazione previsto dalla Costituzione. La sproporzione dei fondi ricevuti dal Bjp rispetto agli altri partiti, ha fatto dire a Rahul Gandhi, con una metafora calcistica, che “queste elezioni sono una partita truccata” e che “due dei nostri giocatori sono stati espulsi”. Rahul non alludeva solo all’enorme quantità di denaro finita sotto forma di bond elettorali nelle casse del Bjp, ma anche al fatto che il dipartimento delle Imposte del governo indiano ha bloccato tutti gli undici conti correnti del Partito del Congresso a causa di un ritardo nella presentazione della dichiarazione dei finanziamenti ricevuti nell’anno 2018-19. I “giocatori espulsi” a cui ha fatto riferimento Rahul Gandhi sono Arvind Kejrival, capo del governo di Delhi e leader dell’Aam Aadmi Party, e Hemant Soren, ex chief minister del Jharkhand, entrambi finiti in carcere, a poche settimane dalle elezioni, per dubbi casi di corruzione.
Anche negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta del secolo scorso, in India, esistevano i ricchi. Vivevano nei loro bungalow e, quando andavano da qualche parte, lo facevano a bordo di Ambassador bianche con i finestrini bruniti, per non dare nell’occhio. La ricchezza non veniva ostentata. La situazione oggi appare capovolta. I miliardari indiani mostrano apertamente il loro potere e le loro immense ricchezze e, con orgoglio, esibiscono la loro identità hindu. Le recenti celebrazioni di “pre wedding” di Anant Ambani, l’ultimo rampollo dell’uomo più ricco dell’Asia, ne sono state un esempio. Tre giorni di festa a Jamnagar, in Gujarat, dove ha sede la Reliance, il gigante industriale di Mukesh Ambani, sono costati 140 milioni di euro (quasi 13 miliardi di rupie). Rihanna, la cantante, ha ricevuto un cachet di sette (o otto) milioni di euro. Ospiti illustri (Mark Zuckerberg, Ivanka Trump, Bill Gates) sono arrivati con i loro jet privati e sono stati accompagnati in albergo a bordo di fiammanti Rolls Royce. L’uomo indiano medio – con i calzini bucati – guarda oggi con ammirazione a questo sfoggio di ricchezza sfrontata. Pensa che rappresenti il successo della Nuova India, con i famosi ospiti stranieri venuti da lontano a omaggiarla. La Costituzione indiana afferma (forse ancora per poco) che l’India è un paese laico, socialista e democratico. La consacrazione dell’idolo del dio Rama ad Ayodhya ha simbolicamente cancellato dal preambolo della Costituzione l’aggettivo “laico”. Il pre wedding di Anant Ambani ne ha eliminato la parola “socialista”. Sotto l’attuale regime, anche la voce “democratico” sembra vacillare pericolosamente. La “Naya Bharat”, la nuova India annunciata da Modi, sta emergendo in tutta la sua chiarezza.
Niti Aayog, il think tank del governo indiano, ha annunciato, un po’ trionfalmente, che nei primi nove anni del governo Modi (2014-2023) in India sono uscite dalla “povertà multidimensionale” 248 milioni di persone. La povertà multidimensionale indica non solo l’assenza di un reddito minimo, ma prende anche in considerazione altri parametri quali la mancanza di acqua potabile o di elettricità, la scarsa scolarizzazione e così via. Il merito di questo importante risultato raggiunto – a detta del think tank governativo – va ai molti programmi in favore della popolazione più povera messi a punto dal governo Modi. Questi interventi costituiscono la “Modi ki guarantee”, la garanzia di Modi, e sono: la distribuzione gratuita di bombole di gas da cucina alle donne dei villaggi, le latrine messe a disposizione della popolazione rurale, le granaglie alimentari a prezzi calmierati (cosa quest’ultima, che hanno fatto tutti i governi indiani dall’Indipendenza a oggi), e altri ancora. Ma sono in molti a mettere in discussione il dato dei 248 milioni di persone uscite dalla povertà. Gli scettici dicono che l’indice di povertà multidimensionale non misura la povertà effettiva ma solo il numero di persone non ancora raggiunte dai provvedimenti del governo in favore delle persone più povere. Se si prende in considerazione il potere di acquisto a breve termine e altri parametri quali la mortalità infantile o la malnutrizione, la situazione di quella che presto sarà la terza potenza economica del mondo appare molto meno rosea. L’ultimo Global Hunger Index, l’indice globale della fame, datato 12 ottobre 2023, colloca l’India al 111esimo posto in una graduatoria di 125 paesi. L’elenco parte dai paesi dove il fenomeno della fame tra la popolazione è meno marcato, per arrivare, in basso, ai paesi dove la fame si presenta ancora in forme gravi. Va poi ricordato che il vero settore dove la politica di Modi ha clamorosamente fallito è quello dell’occupazione giovanile. Per i giovani di età tra i 20 e i 24 anni, nel trimestre ottobre-dicembre 2023, la disoccupazione è risultata essere del 43,65 per cento. Per i giovani tra i 25 e i 29 anni è stata invece del 14,33 per cento. In entrambi i casi, la disoccupazione giovanile è aumentata rispetto al trimestre precedente. E il dato ancora più negativo è che tra i giovani indiani istruiti (con almeno il diploma di scuola secondaria), il numero dei disoccupati è quasi raddoppiato rispetto all’anno 2000. Erano allora il 35,2 per cento; sono oggi il 65,7 per cento. In India studiare non serve per trovare lavoro: un pessimo segnale.
Questa è l’India che, da oggi, si reca alle urne. La posta in palio è molto alta; ma l’esito del voto appare scontato. Narendra Modi, certo della vittoria, ha annunciato: “Durante il nuovo mandato, tracceremo la rotta della nostra nazione per i prossimi mille anni. Faremo dell’India il simbolo della crescita, della prosperità e della leadership globale”. Mallikarjun Kharge, il presidente del Partito del Congresso, nel suo appello agli elettori ha detto: “Queste elezioni costituiscono forse l’ultima opportunità per salvare la democrazia e la Costituzione dalla dittatura”.
I risultati del voto saranno resi noti il 4 giugno.