I dubbi
Molto sull'Europa, poco sugli europei. Cosa non torna nel metodo Draghi
Manca nell'ultimo discorso tenuto ogni accenno al terreno culturale su cui le politiche proposte dovrebbero poggiare. L'illusione di delineare iniziative pubbliche perché ad esse si adeguino automaticamente i singoli
Non si può e non si deve confondere un intervento svolto in occasione di un evento pubblico con il complesso di riflessioni e di analisi di cui esso costituisce una sintesi spesso preliminare e, di conseguenza, sarebbe errato immaginare che i contenuti del discorso tenuto da Mario Draghi alla Conferenza sul pilastro europeo dei diritti sociali tenutasi recentemente a La Hulpe esauriscano il Rapporto Draghi sulla competitività europea che dovrebbe vedere a breve la luce. Ciò non toglie che possa comunque essere utile discutere dei contenuti di quel discorso nell’ipotesi che esso in qualche misura riassuma quantomeno le priorità implicite nel Rapporto stesso. Il che, si noti, implica accantonare del tutto ogni valutazione circa la natura più o meno “politica” del discorso stesso per concentrarsi sulla sua “filosofia”. Il discorso tenuto a La Hulpe è stato pressoché interamente incentrato sul ventaglio di politiche che si ritiene che l’Europa debba mettere in campo per non perdere ulteriormente posizioni rispetto ad altre economie di scala continentale (segnatamente gli Stati Uniti e la Cina) e sulle riforme che dovrebbero riguardare il modo stesso di essere dell’Europa per consentirle di disegnare ed attuare le politiche stesse. Politiche intese a sfruttare appieno la dimensione del mercato unico europeo e di conseguenza a promuovere e favorire dimensioni di impresa ad essa corrispondenti. Politiche intese a garantire il coordinamento a livello europeo nella fornitura di beni pubblici (la sicurezza, ad esempio, o il clima) oggi inefficientemente assicurata o non assicurata affatto. Politiche, ancora, intese a garantire la fornitura di risorse ed input essenziali. Politiche, infine, intese a garantire la coerenza fra le scelte operate in ambito europeo nelle diverse direzioni citate. Scelte indubbiamente e sotto molti punti di vista distanti da quelle prevalenti nelle ultime due decadi.
Manca nel discorso – ma forse non nel Rapporto, vedremo – ogni accenno al terreno anche culturale su cui quelle politiche dovrebbero poggiare. Se è lecito semplificare in un campo in cui forse non lo si dovrebbe fare, nella “filosofia” del discorso (e, dunque, presumibilmente del Rapporto) trova ampio spazio l’Europa ma nessuno spazio gli europei. I loro diversificati valori, le loro spesso molto differenziate basi culturali. Prevale – nel discorso, ma non necessariamente nel Rapporto, vedremo anche qui – la convinzione ben nota secondo cui basta delineare correttamente le iniziative pubbliche perché ad esse si adeguino i comportamenti dei singoli. E’ – ci permettiamo di osservare – una convinzione che ha già mostrato i propri limiti e che spesso si è rivelata per ciò che realmente è: una illusione. L’Italia degli ultimi trent’anni è stata oggetto di un processo riformatore ininterrotto. Faticoso e forse addirittura estenuante. Tutt’altro che lineare, certamente. Segnato da molti passi in avanti e da altrettanti passi indietro. Ma – se si eccettuano i primi tre anni della legislatura avviata nel 2018 – mai assente. Il tutto con risultati che sarebbe ottimistico definire scarsi. E questo perché si è sempre trattato di un processo riformatore mai associato ad un ripensamento del retroterra culturale della società italiana. Un ripensamento in grado di garantire quella piena e convinta adesione ai principi di una economia di mercato cui diamo per scontato che l’Europa non voglia rinunciare. Una adesione che sola permette al dinamismo di una economia di manifestarsi pienamente e di tradursi in innovazione, produttività e benessere. Un dinamismo visibilmente in affanno in buona parte delle economie europee (con l’eccezione forse di quelle olandese e spagnola) anche in ragione delle tendenze demografiche ma i cui margini di miglioramento sono e rimangono molto elevati. Non mancano, naturalmente, espressioni anche pubbliche di quest’ultima posizione e l’esempio forse più interessante lo si ritrova in un recente intervento di Isabel Schnabel su tematiche molto vicine a quelle oggetto del discorso di La Hulpe.
Un intervento quello della componente del Comitato Esecutivo della Bce in cui al tema dell’ambiente in cui si svolge l’intero ciclo di vita delle imprese e del suo radicamento sociale viene assegnata una rilevanza largamente maggiore di quanto non appaia dal discorso di La Hulpe. Detto in altri termini, il “cambiamento radicale” di cui parla il discorso di La Hulpe sembra essere un cambiamento limitato alla sfera istituzionale ed alle sue espressioni, e da essa calato sulla realtà europea. Incapace di coinvolgere la società europea. Un cambiamento meno radicale di quanto sarebbe necessario. Una prospettiva, paradossalmente, tutt’altro che politica, nel senso proprio di quest’ultimo termine. Utilissima per indicare gli obbiettivi – anche molto ambiziosi – che una organizzazione di stati può e deve porsi per essere in grado di rispondere alle sfide ma incapace di offrire un orizzonte condiviso alle relative comunità di cittadini. Suggerirei, sommessamente, che – anche sotto il profilo strettamente economico – è forse questa la cosa di cui l’Europa ha oggi disperatamente bisogno.