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Gli utili idioti degli ayatollah: pseudo pacifisti, onusiani, beghine e accademici
Dopo l'attacco dell'Iran a Israele, la lobby del "cessate il fuoco a Gaza" si è trasformata in "non cessate il fuoco su Israele": così la solidarietà alla Palestina è mutata in una solidarietà diretta a Teheran e ai mullah. Una rassegna
Subito dopo il lancio di cinquecento missili dall’Iran contro Israele, un messaggio si è diffuso rapidamente sui social e sui feed delle sezioni di “Studenti per la Giustizia in Palestina” dei campus americani, da dove dopo il 7 ottobre era già partito il coro pro Hamas: gli ayatollah avevano vendicato il “genocidio” di Israele a Gaza. La Palestine Solidarity Alliance dell’Hunter College di New York ha offerto “solidarietà” all’Iran. Intanto, a Chicago, trecento pacifisti si erano incontrati per discutere come interrompere la convention democratica di agosto: un attivista è salito sul palco per annunciare che l’Iran aveva colpito Israele e la folla ha esultato. La lobby del “cessate il fuoco a Gaza” si era trasformata in “non cessate il fuoco su Israele”. Non appena l’Iran aveva iniziato il suo bombardamento su Israele, i pacifisti saltavano già di gioia. Dalla solidarietà alla Palestina alla solidarietà ai mullah.
Moshe Dayan dichiarò: “Credo sia inconcepibile che l’ayatollah Khomeini prenda a Parigi decisioni che riguardano la sicurezza dell’intero occidente, senza che l’occidente reagisca”. Ma accadde proprio questo, uno strano uccello iraniano aveva nidificato per centododici giorni nella culla dell’illuminismo per covare una rivoluzione che, una volta schiusa, avrebbe seminato morte e oscurantismo.
Nel suo esilio di Neauphle-le-Chateau, fuori Parigi, Khomeini fu omaggiato da giornalisti, attivisti e intellettuali. C’erano lo storico Claude Manceron e il filosofo Louis Rougier che paragonò Khomeini a Davide che trionfa su Golia. Andrew Young, l’ambasciatore americano all’Onu, disse che Khomeini era “un santo socialdemocratico” e accostò la sua rivoluzione islamica all’opera di Martin Luther King. L’ambasciatore americano a Teheran, William Sullivan, paragonò l’imam a Gandhi (questo prima che i dipendenti dell’ambasciata americana venissero tenuti in ostaggio per 444 giorni). Richard Falk, giurista di Princeton e futuro inviato dell’Onu in medio oriente con la fissa per Israele, guidò la missione americana in visita nel sobborgo di Parigi per incontrare Khomeini e sul New York Times si scaldò al fuocherello sciita dei mullah: “L’Iran può rappresentare per noi un modello”. C’era il filosofo comunista, poi cattolico e infine islamico Roger Garaudy, curatore dell’edizione francese delle opere di Lenin, innamorato del khomeinismo (“night club e cinema che hanno mostrato le produzioni più bestiali dell’occidente”, scriveva nell’omaggiare i mullah), che torna dal pellegrinaggio alla Mecca con il nome di “Ragaa Garaudy”, autore de “I miti fondatori della politica israeliana” (il libro ebbe l’appoggio dell’Abbé Pierre) e invitato ad assistere alle parate militari per le strade di Teheran accanto a Khatami e Khamenei.
Libération, il giornale della sinistra, titolava: “Insurrezione vittoriosa a Teheran”. Tutta la prima pagina a gloria di Khomeini. Marc Kravetz, inviato del quotidiano ed ex leader del Maggio ‘68, racconta la “prima grande notte” della rivoluzione iraniana: “Alle 21 abbiamo sentito le prime grida. Un urlo lungo e modulato proveniente dal profondo della gola. Allahu Akbar. Non era più uno slogan, un grido d’allarme, ma una musica pura, bella come il canto dei lupi. Allahu Akbar. Su tutti i tetti della città, le voci si rispondevano. Allahu Akbar. Il grido della guerra santa trovava la sua energia liberatoria nella notte, rotto dalle raffiche delle mitragliatrici”. André Fontaine, direttore del Monde, paragonò Khomeini a Giovanni Paolo II in un articolo dal titolo “Il ritorno del divino”, mentre il filosofo Jacques Madaule si domandava se “il suo movimento (di Khomeini) non aprirà le porte del futuro dell’umanità”. Michel Foucault, il filosofo, sul Corriere della Sera e sull’Obs parlò di quella di Khomeini come della “prima grande insurrezione contro i sistemi globali”.
L’Unità riuscì a trovare spiegazioni anche per le stragi: “Fucilazioni e processi sommari rispondono in qualche modo all’esigenza di rompere radicalmente con il passato. Il puritanesimo e l’integrismo islamico all’esigenza di farla finita con il degrado morale di un’intera epoca”. Paolo Patruno sulla Stampa: “La giornata dell’ayatollah comincia alle 3 per la prima preghiera; poi un riposo fino alle 9, quando iniziano le visite, interrotte dalla preghiera. Il pranzo è frugale”. Sul Corriere Renato Ferraro: “Gli erano state offerte ville lussuose, ma aveva rifiutato: ‘Voglio una casa semplice’”. Sul Manifesto Lidia Campagnano garantiva che sotto i mullah ci sarebbe stata una ventata di liberazione delle donne, che non sarebbero state più trattate alla stregua di “prostitute dello scià”. “Un plebiscito di popolo depone lo scià”, il titolo del Manifesto diretto da Valentino Parlato. E Francesco Alberoni, sempre sul Corsera: “La liberazione cessa di essere un prodotto della dominazione culturale dell’occidente e diventa una autoliberazione nel nome del Corano”.
Impossibile oggi ripetere quella sbornia indecente, troppe le esecuzioni iraniane delle donne e degli omosessuali, troppe le prigioni piene di giornalisti e scrittori, troppe le fosse comuni dove è finito il dissenso, troppi i rastrellamenti e le torture degli studenti. Così l’ubriacatura ha lasciato il passo al cinismo.
Ci sono le università. La Sapienza ha 54 accordi con gli ayatollah. L’Università di Trieste è un caso da manuale: ha più accordi con l’Iran (cinque) che con gran parte degli altri paesi. L’Università di Torino ha sedici accordi con Teheran, il doppio di quelli con Israele. In generale, le università italiane hanno 186 accordi con la teocrazia iraniana. E pensare che nel 2017 l’Italia è stata ospite d’onore alla Fiera del libro di Teheran. Questo ovviamente prima che da Teheran partisse l’ordine di uccidere uno scrittore su un palco a New York soltanto per aver scritto un libro. Le università occidentali e i think tank sono pieni di cinici come John Mearsheimer, professore di scienze politiche all’Università di Chicago, che afferma che “un Iran dotato di armi nucleari porterebbe stabilità alla regione”.
Poi ci sono i partiti europei, come Podemos in Spagna, che flirtano non poco con gli ayatollah. Basta leggere la dichiarazione della segretaria di Unidas Podemos, Ione Belarra, dopo l’attacco dell’Iran a Israele: “La complicità degli Stati Uniti e dei paesi europei con il genocidio del popolo palestinese sta portando a una totale destabilizzazione della regione con conseguenze imprevedibili”. Non una parola sui cinquecento missili su Israele. “Podemos, propagandista dell’Iran in Spagna”, titola ABC.
“Dal fiume al mare”, ruggisce lo scozzese George “Gaza” Galloway, l’amico di Saddam Hussein che faceva il bagno con Fidel Castro, che non disdegna gli abiti firmati mentre oggi guida i suoi seguaci come un religioso islamico. Il populista è appena tornato a Westminster togliendo al Labour vent’anni di dominio a Rochdale, l’ex città tessile di Manchester. Antimperialista che dice di “servire il popolo”, Galloway ha ricevuto il passaporto di Hamas, lavorato per il canale televisivo dell’Iran a Londra Press TV e per al Mayadeen, il canale libanese filo Hezbollah. Se è un giullare, Galloway è uno di quelli che ci rivelano l’assurdità della nostra situazione.
“Una delle armi di Hamas è l’apertura di un fronte in Europa”, dice Hugo Micheron, uno dei massimi esperti francesi di islamismo. Parlamentari inglesi e francesi sono andati a incontrare uno dei leader di Hamas Khaled Meshaal. Esponenti dei libdem inglesi sono andati a Gaza a stringere la mano a Ismail Haniyeh, quando il capo di Hamas era ancora nella Striscia.
Dopo Parigi, gli ayatollah intanto facevano il nido alle Nazioni Unite grazie alla burocrazia transnazionale, il letto caldo dei nemici dell’occidente. Mentre lanciava i missili sullo stato ebraico, Teheran si preparava ad assumere la guida del Forum sul disarmo dell’Onu, per citare soltanto una commissione di cui fa parte. Gli ayatollah hanno ottenuto un seggio quadriennale alla Commissione Onu per i diritti delle donne, sebbene il regime iraniano sia uno dei più spietati al mondo verso il sesso femminile, che vive in uno stato di semi segregazione. Di diritti femminili si occupa anche la maggiore organizzazione dell’Onu, l’Undp, il Programma per lo Sviluppo, di cui Teheran è stato a pieno titolo uno dei membri e addirittura presidente. C’è stato un delegato iraniano all’Unifem, il fondo di sviluppo per le donne. E Teheran è stato vicepresidente dell’Opcw, l’organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, e nell’Unodc, l’ufficio Onu per la droga. Non male per un paese che all’Onu dovrebbe promuovere la legalità ma che, dopo la Cina, figura come leader mondiale nel numero di condanne a morte. E se non bastasse, l’Iran è stato nel board dell’Unicef, l’agenzia Onu per l’infanzia, nonostante Teheran spedisca sulla forca i minorenni (anche in questo caso con numeri da record mondiale).
Poi ci sono le beghine intabarrate. Come Nadine Oliveri Lozano, nuova ambasciatrice svizzera in Iran, che si è vestita di nero dalla testa ai piedi al santuario di Qom, a sud di Teheran. Si arriva a città occidentali, come la capitale canadese Ottawa, che celebrano la “Giornata del velo islamico”, il fantastico coniglio uscito dal turbante di Khomeini, spingendo la dissidente iraniana Shabnam Assadollahi, che ha lavorato a lungo per aiutare migranti e rifugiati a integrarsi in Canada, a dire: “Avevo tredici anni quando Khomeini arrivò al potere in Iran e durante la notte tutte le donne, comprese le ragazze delle scuole elementari, furono costrette a coprire i loro corpi dalla testa ai piedi. Ora la giornata dell’hijab si svolgerà sotto gli auspici della città di Ottawa, che equivale ad accettare un sistema giuridico completamente in contrasto con i valori democratici del Canada”.
Intanto, gli ayatollah incassavano l’autocensura occidentale. Sooreh Hera è un’artista iraniana che in un museo dell’Aia doveva esporre una serie di opere fotografiche che ritraevano coppie gay, fra cui Maometto e Alì. Dopo le minacce di attacchi e di morte anche da Teheran, la mostra è stata annullata. D’altronde Khomeini lo aveva detto: “Non c’è niente da ridere nell’islam”.
Al Macalester College, nel freddo Minnesota, è censurata la mostra di un’artista iraniana, Taravat Talepasand, che aveva realizzato una scultura che recita “Donna, vita, libertà” in inglese e farsi (lo slogan delle donne iraniane) e una satira di Khomeini e donne che indossano il niqab mentre si tirano su le vesti. Nelle stesse ore, un professore iraniano alla San Francisco State University veniva indagato dopo che studenti musulmani si sono lamentati contro l’accademico per aver mostrato un’immagine di Maometto durante una lezione. “Questa è la prima volta che succede”, ha detto Maziar Behrooz. “Non ero preparato che qualcuno si offendesse, in un’università laica, parlando di storia piuttosto che di religione”. Senza contare la dissidente iraniana Maryam Namazie bandita da alcune università inglesi, come il Goldsmiths e il Warwick. La sua difesa del free speech avrebbe “offeso” gli studenti di fede islamica.
Anche l’artista iraniana Sadaf Ahmadi in Svezia è stata censurata. Ahmadi ha creato dieci teste velate appese come fantasmi a una corda. Ahmadi, nata a Teheran, a Euronews dice: “Mi è successa la stessa cosa che in Iran”. Il responsabile della cultura dell’Expressen, Victor Malm, scrive: “Se i manager della cultura che hanno potere cominciano a ragionare così, i mullah hanno già ottenuto ciò che vogliono”. Ma va tutto alla grande, perché a Venezia gli artisti sono liberi di scandire slogan contro il padiglione vuoto di Israele, mentre il presidente della Biennale cita l’Imam al Sadr come esempio di tolleranza. Khomeini non aveva bisogno di liberalizzare il riso nell’islam: da 45 anni sono occupati a ridere di noi. Noi, unidas podemos; loro pasaràn.