L'editoriale dell'elefantino
Nell'occidente liberal e umanitario nessuno aveva capito niente di Netanyahu
Guerrafondaio: non è vero. Un leader che ha a cuore solo la sopravvivenza personale: falso. Se ne frega degli ostaggi nelle mani di Hamas: sbagliato. Fa quello che vuole e se ne infischia delle preoccupazioni e dei consigli di alleati e partner: una scemenza
Weak, debole. Lo ha twittato il ministro spauracchio della ultradestra israeliana al governo, subito dopo la rappresaglia chirurgica di Tsahal su Isfahan. Bibi good boy, è diventato un bravo ragazzo nell’opinione generale dei fautori della de-escalation. Non si sa se e quanto la moderazione israeliana verso l’Iran degli ayatollah servirà la causa dell’equilibrio e, addirittura, della pace regionale in medio oriente. Certo è che i pregiudizi sulla leadership israeliana vanno rivisti, e in fretta. Guerrafondaio, non è vero. Un leader che ha a cuore solo la sopravvivenza personale, falso. Se ne frega degli ostaggi nelle mani di Hamas, sbagliato. Fa quello che vuole e se ne infischia delle preoccupazioni e dei consigli di alleati e partner, una scemenza. Dipende in modo tossico da Ben Gvir e da Smotrich, due ministri e capipartito che sono stati votati per un programma suprematista di espansione del Grande Israele ai danni dei palestinesi. Weak, good boy. Netanyahu ha calcolato, deciso secondo il calcolo, realizzato la decisione in modo impeccabile, trasformando l’occasione di assestare un colpo duro al regime incendiario di Teheran, allargare la guerra e fare i suoi presunti interessi loschi, in un incidente chiuso, almeno in apparenza, per adesso.
La disciplina del capo di Israele da oltre sedici anni verso i simboli e le pratiche della deterrenza millimetrica, dopo sei mesi di guerra autodifensiva contro il nichilismo di Hamas e il suo pogrom in terra israeliana, giusta o sbagliata in prospettiva e qualunque cosa significhi nella parabola drammatica della difesa esistenziale degli ebrei dalla logica di annientamento dei loro nemici, che sia weak o good boy, dimostra che di Netanyahu, nell’occidente liberal e umanitario, nessuno dei chiacchieroni geopolitici aveva capito niente. Va ripetuto che Israele è una democrazia politica. Il primo ministro ha poteri forti ma limitati. Esiste una divisione delle competenze e dei poteri. Si accede al governo tramite elezioni, cinque in quattro anni nel caso in questione. Alla Knesset si formano le maggioranze possibili decise dall’elettorato, non quelle ideali disegnate da Haaretz e da Tom Friedman del New York Times. Dopo il 7 ottobre il famoso governo nero, il più a destra nella storia di Israele, ha incorporato la maggior parte dell’opposizione democratica, con Gantz e Eisenkot. Quel che ha fatto il nuovo Hitler ebraico, rappresentato con i baffetti dalle folle neoantisemite che vogliono cancellare Israele dal fiume al mare, lo ha fatto per colpire e smantellare un’organizzazione terrorista spietata e barbarica, con il consenso di una maggioranza di unità nazionale e della grande maggioranza dei cittadini del suo stato, non per bere il sangue dei civili palestinesi. Si può ovviamente dissentire in toto dalla politica di Netanyahu, considerargli preferibile un leader diverso e di un altro schieramento, posto che abbia la maggioranza ambita e mai veramente ottenuta, e si possono avere mille altre obiezioni politiche legittime contro il governo di Israele, prima e dopo il 7 ottobre. Ma l’uomo nero della situazione si conferma una rappresentazione superstiziosa e moralista.
Basta leggere i libri di Amos Oz, il grande narratore fondatore di Peace Now o gli articoli più informati del Wall Street Journal o le parabole dell’infinito libro mitico di Singer sugli ebrei, per sapere che quel popolo studia e litiga ferocemente da una trentina di secoli. Che la società israeliana è fatta della democrazia e per la democrazia politica. Altro che apartheid o dittatura teocratico-suprematista. E che il suo miracolo è precisamente quello di saper sopravvivere nella contesa continua, nella lotta arcigna e senza esclusione di colpi per il potere, che ha un contenuto ormai sconosciuto alle altre democrazie occidentali: sovranità e indipendenza che non sono ideologia o espansionismo ma vita, esistenza, difesa da un accerchiamento, capacità di unire guerra, calcolo, libertà che dovremmo invidiare invece che affliggere con i nostri comodi schemi. In questi sei mesi di unità nazionale, con le ultradestre ai margini e una solida maggioranza decisionale chiamata da Bibi al centro della tragica scena a Gaza e altrove, non si contano le opinioni in dissenso dal capo del governo, anche pubbliche, le manovre tattiche contro di lui, le richieste di dimissioni e di bando del numero uno di Gerusalemme dal novero degli uomini di stato, le accuse trasversali e le controaccuse, non si contano i colpi alti e bassi, le manifestazioni, le imputazioni di colpa ostili e sovrabbondanti.
Difficile capire come faccia Netanyahu a resistere e a non perdere la testa, a subire senza creare alla prima occasione quell’incendio più grande che è quotidianamente accusato di attizzare. Eppure fa, perché a decidere come si muove un paese-guarnigione, costretto a difendersi da oltre settant’anni dalla volontà di annichilimento dei suoi nemici, non è un uomo nero ma il suo popolo e i suoi leader, tutti, senza eccezione, e tutti in dissenso l’uno dall’altro, sempre, organizzati secondo i dettami della democrazia politica liberale, con la spada, certo, e con che cosa altrimenti?