Il tabù britannico

Smontare la Brexit pezzo a pezzo, così almeno funziona. In silenzio

Paola Peduzzi

Slitta ancora l'introduzione dei controlli alla dogana che aumenterebbero costi e code. L'Europa propone un accordo per la libera circolazione dei giovani. Il divorzio dall'Ue è uscito dal dibattito, a parte qualche eccezione, ma si cerca di diminuire gli effetti nefasti

"Dobbiamo parlare della Brexit” è il titolo di un minidocumentario del Financial Times pubblicato all’inizio di aprile: interviste a esperti, giornalisti, imprenditori, chi ha votato per il leave  e chi ha votato per il remain. Mezz’ora a interrogarsi sul grande tabù del Regno Unito di oggi, a otto anni dal referendum, a quattro dall’introduzione dell’accordo di divorzio dall’Ue, in un anno elettorale, per poi dirsi: meglio non discuterne.

Nessuno mette più in discussione l’uscita del Regno, ma molti stanno mitigandone gli effetti nefasti con un unico imperativo: facciamolo di nascosto. Sempre il Financial Times ieri ha pubblicato un documento riservato del dipartimento dell’Ambiente, dell’Alimentazione e degli Affari rurali (Defra) in cui dice che se dovessero essere introdotti i controlli alle frontiere previsti dall’accordo, i ritardi e le code sarebbero inevitabili. Per questo il governo ha fatto sapere che i controlli sono posticipati, almeno fino a ottobre. E’ la sesta volta che, allo scadere del regolamento, si continua con la sospensione dei controlli: lo chiedono le aziende, lo chiedono le autorità doganali e portuali, lo chiedono i trasportatori. Il Defra non voleva che questa presentazione diventasse pubblica, “uno dei suoi obiettivi è evitare articoli troppo negativi”, ma questa preoccupazione è eccessiva: non si parla di Brexit, semmai la si disfa pezzetto per pezzetto, di nascosto.

“Let’s get Brexit undone” è la battuta che circola di più tra gli addetti ai lavori, gli unici che sono costretti ancora a occuparsi di questo enorme equivoco. Ci sono ancora  alcuni esponenti politici nel Regno Unito e sul continente che si battono contro il catastrofismo sulla Brexit, contro il negazionismo delle buone cose che ha fatto la Brexit, ma chi è al potere – e chi vorrebbe andarci, come il leader del Labour Keir Starmer – tende a incoraggiare il silenzio, e semmai valuta nuove forme di riavvicinamento. Come la proposta dell’Ue di fare un accordo per la libera circolazione dei giovani europei tra i 18 e i 30 anni che duri quattro anni, in modo che possano studiare e lavorare nel Regno – e viceversa, è un accordo reciproco, vale anche per i giovani britannici che vogliono fare un’esperienza in Europa. Il Regno Unito ha già fatto accordi simili con dieci paesi non europei, come l’Australia, il Canada e il Giappone, ma ora il ministero dell’Interno, su suggerimento di Rishi Sunak, il premier pro Brexit che ha capito che il divorzio funziona se è meno divorzio, sta lavorando con alcuni paesi europei.

E se l’ex premier Liz Truss è su tutti i muri questa settimana con il suo memoir in cui ancora dice che lei l’avrebbe fatta molto meglio, la Brexit, e persino i sostenitori del divorzio dicono: per carità, il resto del paese preferisce parlare d’altro. Non c’è bisogno di ammettere gli errori, soprattutto non c’è alcuna ragione al mondo per volersi ricontare: riavviciniamoci all’Europa per quel che ci serve, è da sempre l’amante di cui non si può fare a meno.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi