In Spagna
Dalle elezioni basche a quelle catalane, l'equilibrismo di Sánchez
Nei Paesi Baschi i nazionalisti non sono mai stati così forti, eppure il premier spagnolo è soddisfatto perché i due partiti vincitori sono suoi alleati strategici e determinanti nel Parlamento nazionale
Nelle elezioni regionali basche di domenica scorsa, i due partiti nazionalisti hanno ottenuto in tutto 54 seggi su 75: non erano mai stati così forti. I democristiani moderatamente indipendentisti del Partido nacionalista vasco (Pnv) hanno vinto per la tredicesima volta consecutiva in 44 anni, prevalendo di poco su EH Bildu, ovvero su quella sinistra secessionista che per decenni, con un tourbillon di denominazioni diverse, aveva offerto una sponda politica ai terroristi di Eta. Ciascuna delle due formazioni ha ottenuto 27 seggi, 6 in più di quelli conquistati da tutti i non indipendentisti messi insieme: i socialisti e i popolari hanno ottenuto rispettivamente 12 e 7 seggi, mentre la sinistra radicale (Sumar) e la destra estrema (Vox) ne hanno strappato uno a testa. Eppure, per il premier socialista Pedro Sánchez, dopo la sconfitta di febbraio nelle elezioni galiziane, il risultato del voto basco è molto soddisfacente. Non tanto perché il suo partito ha guadagnato due seggiucci, ma perché l’esito delle urne tranquillizza sia Bildu sia il Pnv, che a Madrid sono alleati del premier e i cui voti sono determinanti nel Parlamento nazionale.
Bildu, dopo decenni passati a “non condannare” il terrorismo, interpreta ora il ruolo del partito-agnellino, leale nelle alleanze e modesto nelle pretese. Certo, domenica la sinistra indipendentista non ha compiuto quel sorpasso sul Pnv previsto da qualche sondaggio e rimarrà all’opposizione, ma ha comunque ottenuto un risultato formidabile e ora, satolla di voti su cui costruire un ulteriore balzo fra quattro anni, continuerà a offrire il suo prezioso appoggio a Sánchez nel Parlamento di Madrid. E neppure il Pnv – che ha scongiurato il sorpasso e rimane alla guida del governo basco con l’appoggio dei socialisti – ha motivo di creare grattacapi a Sánchez a livello nazionale.
I socialisti, data la loro cronica incapacità di ottenere delle maggioranze “in proprio”, basano da anni la loro permanenza al governo su una rete di accordi equilibristici con tutti i partiti nazionalisti su piazza. Dal benessere elettorale di questi partiti i socialisti hanno quindi solo da guadagnare quanto a stabilità complessiva del sistema. I popolari accusano il premier di essere ostaggio degli indipendentisti, ma Sánchez respinge l’accusa: è semmai il Pp, dice, a essere “una fabbrica di indipendentisti” con la sua aggressività contro le regioni più inquiete. Lui, invece, vuole mostrarsi come un leader che riesce a sterilizzare, con le buone maniere, gli istinti secessionisti. E’ una scommessa rischiosa, perché, se è vero, per esempio, che l’attuale trionfo nelle urne del nazionalismo basco è figlio della campagna elettorale più pacifica di sempre e in cui meno è stata pronunciata la parola “indipendenza”, non si sa che cosa possa nascere un domani da un simile strapotere dei partiti centrifughi.
In ogni caso, nei Paesi Baschi a Sánchez è andata bene. Ora però il premier spagnolo si trova di fronte a due sfide più difficili. Il 12 maggio si vota in Catalogna e i sondaggi inducono a credere che lì, per la prima volta in molti anni, anche a causa di un buon risultato dei socialisti, il variegato fronte secessionista, che si misura in una furibonda competizione elettorale “interna”, possa perdere la maggioranza dei seggi. Questo permetterebbe al premier di dire: “Vedete? Io ho concesso agli indipendentisti la tanto vituperata amnistia e loro hanno perso nelle urne invece che nei tribunali”.
Resta da vedere, però, se un eventuale insuccesso dei due principali partiti secessionisti catalani non li induca a innescare delle rappresaglie a Madrid (dove appoggiano Sánchez, che ha un assoluto bisogno dei loro voti). Ma, mentre si starà ancora analizzando l’esito delle elezioni catalane, ecco che tutti gli spagnoli dovranno andare alle urne per quelle europee, in cui i popolari sperano di dare una spallata a Sánchez e Sánchez spera invece di reggere botta, sull’onda di una buona affermazione dei socialisti in Catalogna.
Insomma, la strada davanti al premier è stretta e piena di “se” più traballanti di un ponte di corde: ma questo è il tipo di percorso più congeniale a un leader spregiudicato come lui. Tanto più che la crescita del pil spagnolo, rivisto al rialzo dal Fmi, è tra le migliori dell’Eurozona e che probabilmente nessuno dei suoi alleati secessionisti – tranne forse il catalano Carles Puigdemont – avrà il fegato di ferire a morte il premier, per poi trovarsi con un governo dei popolari, “contaminato”, per di più, dall’appoggio degli ultrà spagnolisti di Vox.
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