Joe Biden e Donald Trump - foto via Getty Images

la ricostruzione

Perché negli Stati Uniti è ancora tutta una sfida tra Biden e Trump. Un'indagine

Marco Bardazzi

L’America resta un paese bloccato dal bipolarismo polarizzante. L’èra trumpiana non è finita e la scelta per la Casa Bianca è di nuovo tra quei due. Le ragioni vanno indietro nel tempo: nella grande crisi degli anni Dieci che ha cambiato e disgregato il paese e la sua politica, quando Obama ha concluso la sua amministrazione

Ma davvero di nuovo quei due? Con tutta la sua storia, l’innovazione, la creatività che ci propone, davvero l’America non ha di meglio da offrire agli elettori e al mondo, in questo 2024 di rinnovo della Casa Bianca, di un rematch tra Joe Biden e Donald Trump? Domanda lecita e frequente in questi mesi, che non ha una risposta univoca e richiede di mettere in fila molti fattori per arrivare alla conclusione che sì, l’America a questo giro non poteva che offrire di nuovo quei due. Se un osservatore americano chiedesse a un italiano di spiegargli perché, in una certa fase storica, l’Italia sia stata sostanzialmente bloccata su una scelta tra Silvio Berlusconi e Romano Prodi, la risposta non potrebbe che essere: “È complicato”. Lo stesso vale, in circostanze ovviamente molto diverse, per ciò che è avvenuto in quasi un decennio negli Stati Uniti, tra la fine dell’amministrazione Obama e oggi. Dal momento cioè della discesa in campo di Trump, che a differenza di quella di Berlusconi fu una “discesa” vera e propria, giù dalla scala mobile dorata della Trump Tower sulla Quinta Avenue a New York fino all’atrio dove lo attendevano giornalisti e telecamere, venuti ad ascoltare il suo annuncio di candidatura alla presidenza. Tutti la presero come un’ennesima trovata del magnate e personaggio televisivo per farsi pubblicità ed è probabile che lo stesso protagonista, in quel momento, la vivesse con quello spirito.
 

In realtà il 16 giugno 2015, tra lo scetticismo dei media newyorchesi e l’indifferenza iniziale del resto del paese, è cominciata quella che ormai si profila come l’Era di Trump. Un periodo della storia americana segnato, piaccia o meno, dalla figura dell’ex protagonista televisivo di “The Apprentice” diventato capo di stato. Si potrebbe sostenere che siamo ancora in questa Trump Age, anche se alla Casa Bianca c’è Joe Biden, e resteremo a lungo in un’era trumpiana anche se a novembre vincesse di nuovo il presidente dei democratici. Perché Trump ha impresso un’impronta sul paese che va oltre la sua presenza o meno alla Casa Bianca. Uno dei due partiti su cui si regge tutta la democrazia americana è adesso interamente trumpiano: da poche settimane è perfino guidato dalla nuora dell’ex presidente, Lara Trump, facendone un partito a conduzione familiare. I repubblicani al Congresso sono una falange trumpiana, piena di volti nuovi cresciuti nel mito del verbo Maga (Make America Great Again, il movimento di Trump).
 

Quanto sia difficile per i repubblicani muoversi in autonomia dal loro leader lo ha dimostrato bene, in queste settimane, il faticoso e a tratti drammatico iter della legge con la quale il Congresso era chiamato a rifinanziare le operazioni militari in Ucraina e Israele e a sostenere Taiwan. Il voto bipartisan della scorsa settimana, evento rarissimo nell’America di oggi, è stato il frutto della pressione enorme che l’amministrazione Biden, la comunità dell’intelligence e il Pentagono hanno messo in campo sullo speaker repubblicano della Camera, Mike Johnson, per spingerlo a non cedere alle minacce e votare pensando non a Trump, ma al giudizio che darà la Storia su questa classe politica americana.
 

Ma è stata un’eccezione in uno scenario del paese dove ad aver giurato fiducia all’ex presidente c’è un piccolo esercito di governatori, deputati statali, giudici, funzionari pubblici. Per non parlare dell’intero ecosistema mediatico nato negli anni di Trump, che ha una parte importante in questa storia. La risposta più semplice alla domanda “perché di nuovo Biden contro Trump”, è che nell’era trumpiana una presidenza come quella di Biden esiste proprio perché c’è Trump. I due sono uno la spiegazione dell’altro e avrebbero potuto scontrarsi molto prima del 2020. Forse la storia americana avrebbe preso una piega diversa e la responsabilità di ciò che (non) è avvenuto è in buona parte di Barack Obama.
 

Perché a cavallo tra il 2015 e l’anno elettorale 2016, quando si cominciò a capire che i vari candidati repubblicani alla Casa Bianca si stavano facendo la guerra tra loro lasciando strada libera a Trump (un po’ come hanno fatto Ron DeSantis e Nikki Haley nelle ultime primarie), Biden voleva candidarsi per i democratici e affrontare subito The Donald. L’attuale presidente era all’epoca il vice di Obama alla Casa Bianca e fu il suo capo a frenarlo, scegliendo di appoggiare invece Hillary Clinton. Per Obama lei era in quel momento la più forte e la migliore risposta a Trump. Probabilmente hanno giocato nella scelta una sottovalutazione dell’avversario e anche un po’ di debiti aperti tra il presidente e l’ex First Lady, dopo che Obama aveva sconfitto Hillary nelle primarie del 2008 e lei si era poi messa a sua disposizione per fare il segretario di stato. Forse sarà lo stesso Obama a spiegarci le ragioni per cui frenò Biden nel 2016, quando uscirà finalmente la seconda parte di A Promised Land, la sua autobiografia presidenziale.
 

Quel che è certo è che Hillary Clinton si è rivelata una delle principali ragioni per cui Donald Trump è entrato alla Casa Bianca e Joe Biden una delle principali ragioni per cui ne è uscito. Nell’immaginifico e sempre pericoloso mondo della Storia scritta con i “se”, esiste un mancato scontro Biden-Trump nel 2016 di cui è difficile ipotizzare gli esiti e le conseguenze.
 

Per capire lo scenario di oggi è però necessario andare ancora un po’ più indietro rispetto all’epoca della scala mobile dorata del 2015 e ricostruire a grandi linee il contesto che ha portato a quel momento fatidico alla Trump Tower. Conviene riprendere il filo dagli anni Novanta del secolo scorso, quando i democratici riconquistarono la Casa Bianca dopo il lungo dominio reaganiano e del primo presidente Bush. Bill Clinton guidò il partito su una posizione centrista, ne fece un sostanziale rebranding per trasformarlo in una realtà attenta al contenimento della spesa pubblica e alla riduzione dell’apparato governativo. Terreni sui quali fino ad allora dominava il liberismo della Reaganomics e che i democratici avevano dovuto in parte riconquistare, spostandosi al centro, per vincere le elezioni. Quando all’inizio del secolo alla Casa Bianca erano tornati i repubblicani con George W. Bush, i due partiti si muovevano ancora entrambi in un’area moderata, incarnata sul lato dei democratici dai due avversari di Bush alle elezioni del 2000 e del 2004: Al Gore e John Kerry.
 

La presidenza del secondo Bush era nata come progetto centrista, all’insegna dell’idea del “conservatorismo compassionevole” che puntava a gestire la ricchezza del paese, in pieno boom tecnologico per il decollo di internet e della telefonia mobile. Il presidente repubblicano non aveva particolare interesse ad allargare la sfera di influenza internazionale degli Stati Uniti, se non sotto il profilo di un maggior controllo degli scambi commerciali planetari. Con una Russia dove muoveva i primi passi da leader un Vladimir Putin di cui Bush diceva di fidarsi “dopo averlo guardato bene negli occhi” e una Cina ancora lontana dall’essere minacciosa, la Casa Bianca appariva non tanto isolazionista, quando poco interessata alle vicende del resto del mondo.
 

Tutto è cambiato l’11 settembre 2001, con l’attacco di Al Qaida contro New York e Washington. Nell’amministrazione Bush sono emersi a quel punto un paio di “falchi” come il vicepresidente Dick Cheney e il capo del Pentagono Donald Rumsfeld, che insieme ai teorici del mondo neocon hanno costruito il percorso che portò prima alla guerra in Afghanistan e poi a quella in Iraq. Ne era nato anche un enorme rafforzamento dell’apparato federale, che muovendosi sotto l’imperativo della sicurezza nazionale da difendere a tutti i costi, aveva commesso una serie di passi falsi sul fronte delle libertà civili e del ruolo dell’America nel mondo: il Patriot Act, Guantanamo, Abu Ghraib, l’incapacità di riportare un minimo di ordine a Kabul e a Baghdad.
 

I democratici avevano tentato di offrire un percorso alternativo con Kerry, l’eroe di guerra che aveva denunciato gli errori americani in Vietnam, ma la sua sfida presidenziale a Bush nel 2004 fu un fallimento. Si proseguì con altri quattro anni di presidenza repubblicana durante i quali l’America si faceva odiare nel mondo, ma all’interno l’economia sembrava solidissima, accompagnata dalle innovazioni tecnologiche che confermavano la leadership americana su scala internazionale. Basta ricordare che tra il 2004 e il 2008 nacquero e decollarono l’iPhone, Facebook e Twitter, mentre Google e Amazon diventavano colossi
 

Alla fine della presidenza di Bush, al malumore per l’avventura fallimentare in Iraq si unì la peggiore crisi di Wall Street dai tempi del crollo del 1929, con lo scandalo dei mutui subprime, il fallimento di Lehman Brothers e la necessità per il governo di intervenire in modo massiccio per impedire che il sistema economico finisse ko. Il paese ereditato da Barack Obama nel gennaio 2009 era in piena crisi, con una profonda recessione in arrivo e la necessità di salvare colossi bancari, assicurativi, automobilistici.
 

Obama era stato abilissimo, in campagna elettorale, a proporsi come risposta al malumore che viveva l’America dopo le guerre senza fine e nel pieno di una crisi economica che spazzava via posti di lavoro e case di proprietà (l’essenza del sogno americano). Gli americani lo avevano preferito a John McCain, con il quale Obama aveva dato vita nel 2008 a una delle campagne elettorali più pulite e meno virulente degli ultimi decenni. Per quanto amasse l’etichetta di maverick, di personaggio indipendente e fuori dagli schemi, McCain era un repubblicano dell’establishment, in continuità con Reagan e i due Bush e lontano anni luce da quello che sarebbe diventato il partito negli anni di Trump.
 

La sconfitta di McCain e la sconfessione degli anni di Bush scatenarono un regolamento di conti e una successiva mutazione genetica nel Grand Old Party (Gop) repubblicano. I semi per arrivare all’epoca attuale del partito dominato dal movimento Maga sono stati sparsi in questa fase storica, all’inizio degli anni Dieci.  È il momento in cui la linea tradizionale del Gop viene sfidata da un altro movimento, il Tea Party, che riuniva conservatori, libertari e populisti di destra e inizialmente si batteva quasi esclusivamente su temi economici: small government, riduzione delle tasse, opposizione netta ai progetti di welfare di Obama, primo tra tutti la sua riforma sanitaria (Obamacare).
 

Poi aveva allargato il proprio raggio d’azione alla lotta contro il multilateralismo, la globalizzazione, l’Onu, in una chiave sempre più nazionalista. Tra il 2010 e il 2015, sotto la spinta del Tea Party i repubblicani si sono spostati verso posizioni populiste, che sono andate a saldarsi con le rivendicazioni dell’ala conservatrice più impegnata sul fronte delle cosiddette guerre culturali: aborto, matrimoni gay, educazione, affirmative action, immigrazione. Terreni d’azione delle chiese evangeliche e dei think tank di destra più aggressivi
 

Obama, con tutta la sua straordinaria retorica sulla necessità di riunire un paese diviso e portare un vero “change” (cambiamento), in realtà ha accelerato la polarizzazione del paese. Se i repubblicani si spostavano a destra e diventavano populisti, in buona parte era anche per reazione a un presidente che spingeva un’agenda che assecondava gli americani delle metropoli in California o sulla costa orientale, ma lasciava disorientati e abbandonati quelli del cosiddetto fly-over country, l’enorme distesa di stati del midwest e del sud, che chi vive nelle città e metropoli sulle due coste (quelle che votano in gran parte per i democratici) conosce solo perché li vede dai finestrini mentre, appunto, ci vola sopra.
 

Qui occorre lasciare un attimo la politica e scendere dagli aerei laggiù a terra, soprattutto nell’America rurale, per cercare di capire una serie di fenomeni ancora poco studiati che sono accaduti negli anni Dieci, che hanno cambiato profondamente il volto del paese e innescato quel malumore da cui nasce il fenomeno Trump. Perché la storia di un paese non la fanno i suoi presidenti né i suoi partiti, che sono solo espressioni dello spirito dei tempi.
 

È in questi anni che si è rotto qualcosa in America. Qualcosa di apparentemente irreversibile si è messo in moto con l’esodo dei posti di lavoro legato alla globalizzazione, l’entrata in crisi della classe media, l’aumento dei divari sociali. Qualcosa ha cominciato a minare intere generazioni soprattutto di bianchi poveri e con scarsa scolarizzazione, protagonisti del drammatico fenomeno delle “morti per disperazione”, che a colpi di oppiodi, alcool e suicidi ha fatto addirittura abbassare l’aspettativa media di vita degli americani. Qualcosa alimenta da allora la devastante epidemia di solitudine che allarma ormai anche le autorità federali, perché l’isolamento – dati del servizio sanitario alla mano – uccide più di quanto un tempo facessero le sigarette. Qualcosa spinge a riempirsi la casa di armi e talvolta a impugnare un fucile semi automatico AR-15 per fare una strage in una scuola, una discoteca, una chiesa.
 

La crisi economica e la recessione del 2008-2009 hanno assottigliato la classe media americana e accelerato l’allargamento del divario tra un 1 per cento di super ricchi, un 9 per cento di benestanti e una enorme fascia di popolazione all’interno della quale si trova anche un numero di poveri più alto di quanto non venga spesso percepito
 

I dati del Census Bureau ci parlano di 37,9 milioni di americani (l’11,6 per cento della popolazione del paese) che vivono sotto una soglia di povertà ufficiale fissata a 27,479 dollari di entrate annue per una famiglia di quattro persone. In realtà questa poverty line è un indice controverso, che resiste dagli anni Sessanta e che molti contestano, perché non terrebbe conto nel modo corretto della crescita dei costi della sanità, dell’assenza di un welfare diffuso e delle sfide che portano le cicliche recessioni e i ritorni di fiamma dell’inflazione. 
 

C’è una seconda poverty line, posta a un reddito di 54.958 dollari per una famiglia di quattro persone, che secondo molti centri studi come Center for American Progress o Peterson Foundation, andrebbe considerata come la vera soglia che apre a un nucleo familiare le porte di una sostanziale indigenza. Piazzando qui il punto di riferimento, i “poveri” americani diventano 90,6 milioni, pari al 27,6 per cento della popolazione. 
 

Quale che sia il livello dove tiriamo la linea sotto la quale si fatica ad arrivare a fine mese, si tratta di numeri enormi. Che diventano inquietanti quando si va a vedere quanti gradini sotto la linea si collocano un gran numero di nuclei familiari. Ci sono 18,2 milioni di persone che vivono con meno di 13 mila dollari l’anno di entrate, che in America significano miseria.  Sotto la linea della povertà dei 27 mila dollari troviamo il venti per cento della popolazione afroamericana e il diciassette per cento di quella ispanica, oltre al venticinque per cento dei nativi americani. Ma uno dei fenomeni più significativi degli ultimi decenni è che per neri e ispanici il trend della povertà è in continuo calo, cioè le cose vanno migliorando, mentre a essere rimasti stabili o in peggioramento sono i bianchi.
 

E qui si entra nel mondo di quelli che vengono spregiativamente chiamati white trash, gli americani bianchi poveri che si portano dietro etichette folkloristiche spesso legate alle loro provenienze geografiche: gli hillbilly della zona dei monti Appalachi, gli Okie dell’Oklahoma, i redneck del sud rurale, i trailer trash che si spostano con le loro case mobili in giro per gli Usa. È un mondo carico di senso di sconfitta e di risentimento, che si sente tagliato fuori dal sogno americano con più rabbia di quanta non ne esprimano spesso i neri, che hanno secoli di discriminazione alle spalle, o gli ispanici, che hanno solide strutture familiari e comunitarie e vivono con più speranza di essere in una condizione solo temporanea, dalla quale in America in fin dei conti si può uscire.
 

Il mondo dei bianchi poveri è quello che sembra più impantanato degli altri. È l’ambiente dove è esplosa l’epidemia di solitudine di cui parlano le statistiche del governo, alimentata anche da due fenomeni che restano spesso sotto il radar delle indagini sociali e che hanno entrambi accelerato all’inizio degli anni Dieci: la scomparsa in molte parti dell’America delle chiese di varie denominazioni, alimentata dal calo della religiosità del paese, e l’avanzare un po’ dovunque del “deserto delle news”, provocato dal boom della rete e dalla scomparsa di giornali e tv locali. Sono due gigantesche novità, in una nazione che fin dai tempi in cui la raccontava Alexis de Tocqueville nel suo “La democrazia in America” si basava sulla solidità delle piccole comunità rurali, sostenute da religione e informazione locale.
 

Secondo il Pew Research Center, la percentuale di chi si dichiara cristiano negli Stati Uniti è scesa dal 90 per cento del 1972 a poco più del 60 per cento attuale. Sono cresciuti gli agnostici, sono diminuite le congregazioni tradizionali, con le chiese luterane o battiste che vanno svuotandosi. Si assiste a una frammentazione della fede, con megachiese non affiliate alle grandi denominazioni e dominate da pastori-star isolati l’uno dall’altro. Tradotto in conseguenze politiche, è un fenomeno che segna la scomparsa di figure carismatiche di alto profilo del mondo protestante, come il reverendo Billy Graham, che per decenni erano interlocutori dell’establishment di Washington e mediatori con la base elettorale. Adesso prospera un universo di piccole chiese locali fortemente radicalizzate, a destra e a sinistra, sui temi delle guerre culturali. Ma sono soprattutto entrate in crisi le comunità che ruotano intorno alle chiese e che erano un ammortizzatore sociale, un luogo di confronto e di recupero, per esempio, per chi era alla deriva per droghe o alcol. Con le chiese vuote alla domenica, vince la solitudine di chi resta in casa a sfogarsi con i social e cresce il rancore.
 

Nello stesso tempo, il nuovo ecosistema digitale del Ventunesimo secolo ha provocato la scomparsa negli Stati Uniti dal 2005 a oggi di tremila quotidiani e settimanali locali, un terzo del totale. Secondo i dati del rapporto “The State of Local News” della Northwestern University dell’Illinois, oggi ci sono 204 contee negli Usa categorizzate come “deserti” dal punto di vista dell’informazione: non hanno più alcun tipo di attività informativa locale. Una realtà che ha cominciato a essere drammaticamente evidente proprio nei primi anni Dieci. Altre 1.562 contee (su un totale complessivo di 3143 in tutto il paese) hanno ora un solo giornale sopravvissuto, quasi sempre un settimanale, senza più alcuna emittente locale. Di queste contee, 228 sono state aggiunte a una “watch list” perché ritenute a un passo dal diventare a loro volta deserti.
 

Nel Ventesimo secolo le comunità americane si sono abituate a un tipo di informazione che ha privilegiato le news del territorio, per poi offrire un quadro nazionale e internazionale che partisse però da uno sguardo “vicino a casa”. Un approccio che peccava senz’altro di provincialismo, ma fungeva da collante sociale. È il motivo per cui negli Usa non ci sono praticamente quotidiani nazionali, con l’eccezione di Usa Today e del finanziario Wall Street Journal. Anche testate con un’influenza planetaria come il New York Times o il Washington Post si sono sempre concepite come quotidiani cittadini capaci di raccontare il mondo.
 

L’ecosistema che dominava fino agli anni Dieci prevedeva di solito la presenza in ogni città, piccola o grande, di almeno un paio di giornali (molto spesso settimanali) e di una o due emittenti tv, in competizione tra loro e affiliate ai grandi network nazionali (Abc, Cbs, Nbc). A queste, in molti luoghi si aggiungeva la radio o la tv pubblica (Npr, Pbs), che di “pubblico” ha poco per i nostri standard europei, perché si tratta di realtà finanziate solo in minima parte dallo stato: sono network no-profit che sopravvivono soprattutto con la raccolta di fondi tra gli spettatori-ascoltatori.
 

Tutto questo oggi è stato in gran parte spazzato via. Ci si informa sui social e ogni evento anche locale viene letto in una chiave imposta dai grandi scontri culturali nazionali. Senza più la mediazione di un’informazione del territorio, si è sempre più soli, chiusi in casa e impegnati a combattere battaglie virtuali che polarizzano in modo indelebile non tanto le comunità, quando i singoli individui, spesso in guerra con il mondo intero a partire dal vicino di casa.
 

Negli anni di Obama, per l’incrocio dei vari fattori appena descritti, è così entrata in crisi qualsiasi possibilità di una narrazione condivisa sullo stato del paese. Tutto si è frammentato: i media, le chiese, la politica. Non regge più neppure la divisione tra Blue America e Red America che lo stesso Obama aveva cavalcato per diventare presidente, promettendo di volerla sanare. Oggi dal punto di vista dell’informazione, per esempio, ci sono almeno una dozzina di Americhe diverse.
 

La rivista online Axios ha provato a catalogarle e l’effetto è quello di guardare il mondo attraverso un vetro incrinato e prossimo ad andare in frantumi. L’audience delle cosiddette élite informate, con buona educazione e interessate alle vicende nazionali e internazionali, si è ridotta a 25-35 milioni di americani. Poi ci sono varie bolle legate ai social, che ormai hanno assunto caratteristiche diverse l’una dalle altre: gli aggressivi seguaci di Elon Musk su X (in gran parte maschi), gli anziani su Facebook, i giovani creativi di tendenza su Instagram e i giovanissimi che si informano solo su TikTok. C’è un’ala destra che invecchia incollata a FoxNews e rimpiange gli anni del polemista radiofonico Rush Limbaugh. E c’è il mondo Maga che prospera su piattaforme tutte proprie, da Truth a Rumble, e vive di un racconto del mondo guidato solo dalle voci dominanti dell’universo trumpiano: Tucker Carlson, Charlie Kirk, Jack Posobiec, Mike Cernovich, la War Room di Steve Bannon, Matt Boyle di Breitbart. Poi ci sono nicchie di ogni genere e c’è un emergente mondo di news dei latinos e degli afroamericani che stanno ridisegnando l’informazione con un racconto in chiave etnica. Infine c’è una grande maggioranza che si disinteressa totalmente delle news. 
 

La grande frammentazione, la crisi delle comunità, la solitudine e il boom dei social hanno cambiato e disgregato negli anni Dieci il paese e la sua politica. Le ultime elezioni presidenziali “normali” che ha vissuto l’America sono quelle del 2012, quando i repubblicani sono riusciti per l’ultima volta a unirsi dietro un candidato tradizionale dell’establishment, Mitt Romney, per sfidare senza successo Obama
Il secondo mandato del primo presidente nero è stato la definitiva svolta per la politica americana. In casa dei democratici è stata criticato l’eccessivo centrismo obamiano e il partito, come il resto del paese, ha avvertito il peso della frammentazione e della polarizzazione. È emersa un’ala sempre più radicale, guidata da esponenti storici come Bernie Sanders o Elizabeth Warren e da giovani emergenti come Alexandria Ocasio-Cortez. Dall’altra parte della barricata, i repubblicani dopo la sconfitta di Romney sono andati nel panico, senza più alcuna figura che avesse il peso e il carisma per riunirli. Dal 2012 al 2015 il Gop è stato terra di nessuno, in preda alla guerriglia tra fazioni e a un sempre più forte populismo, alimentato dal movimentismo nato con il Tea Party. A un certo punto del cammino di avvicinamento alle primarie del 2016 si è registrato il numero record di diciassette candidati repubblicani alla presidenza, nessuno dei quali di reale peso politico. Alla fine sono sopravvissuti Ted Cruz, Marco Rubio, Jeb Bush e qualche altro, insieme all’outsider Trump.
 

Ed è in questo momento, tra il 2015 e il 2016, che la politica americana è andata in corto circuito. I democratici si sono spinti troppo a sinistra con la candidatura di Sanders e hanno pensato di bilanciarla con Hillary Clinton, senza fare i conti con lo scarso entusiasmo che l’ex First Lady suscitava nel suo stesso partito. I repubblicani si sono ritrovati con un gruppetto di “nani politici” che si facevano la guerra l’uno contro l’altro, di fronte ai quali l’America di destra, alle prese con tutti i fenomeni che abbiamo descritto prima, ha puntato sul personaggio più popolare e fuori dagli schemi. L’ex protagonista di “The Apprentice”, l’uomo che da vent’anni vedevano su tutti i rotocalchi mentre inaugurava un grattacielo a New York o un casinò ad Atlantic City, circondato da modelle, campioni dello sport e jet set. E alle elezioni del novembre 2016, dopo una campagna sporca e contaminata perfino dai russi, la maggioranza degli americani ha scelto lui, rispetto a una Clinton apparsa opaca e poco sostenuta dal suo partito. 
Trump ha congelato una classe politica che non ha capito (neppure oggi) come affrontarlo. I repubblicani, impressionati dal suo seguito popolare, gli si sono affidati, mentre la parte tradizionale del partito, quella dei Bush e dei Romney, si arrendeva e usciva di scena. L’unica vera voce anti-Trump emersa negli ultimi anni si è rivelata quella di Nikki Haley, tutti gli altri si sono allineati dietro al capo e non emergono giovani leader che non siano trumpiani.
 

In casa democratica, l’effetto Trump ha provocato uno spostamento ancora più a sinistra e nel 2020 non si è trovato un volto nuovo “alla Obama” da contrapporgli. In campo sono scesi Sanders e la Warren, rispetto ai quali l’elettorato ha preferito l’usato sicuro di Biden, che forse andava utilizzato già nel 2016. Una nuova generazione stenta per ora a emergere, con rare eccezioni come Pete Buttigieg, Ocasio Cortez, Amy Klobuchar e in questa categoria si potrebbe considerare anche Kamala Harris. Nessuno è sembrato pronto a sfidare Biden per la nomination 2024, neppure i governatori con aspirazioni presidenziali come Gavin Newsom o Gretchen Whitmer. Un eventuale successo nelle primarie repubblicane di DeSantis o della Haley avrebbe potuto rimettere qualcosa in discussione, ma contro Trump i democratici non hanno un antidoto migliore di Biden.
 

Le novità sono rimandate al 2028. A questo giro, con un paese frammentato e rancoroso e due partiti che non hanno ancora preso le misure della nuova America degli anni Venti – segnata dalle profonde trasformazioni degli anni Dieci – resta inevitabile prendere atto che no, non c’erano alternative a un rematch Biden-Trump.

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