La festa delle sedie vuote

La protesta in Israele non riguarda solo Bibi. I seder senza ostaggi

Micol Flammini

Se il Qatar non sarà più mediatore per i prigionieri nella Striscia di Gaza sarà un problema. Dopo gli ultimi rifiuti di Hamas la parola "negoziato" è scomparsa

 Il primo tavolo vuoto, in Israele, è comparso a Tel Aviv, nel luogo che è stato ribattezzato Piazza degli Ostaggi: prima spazio del dolore per gli israeliani fatti prigionieri da Hamas il 7 ottobre, poi spazio dell’attesa quando il negoziato con i terroristi, mediato da Stati Uniti, Egitto e Qatar aveva portato a novembre all’unica tregua e alle prime liberazioni; oggi spazio della protesta, perché del negoziato non si sa più nulla e la rabbia delle famiglie degli oltre centotrenta sequestrati rimasti nella Striscia si sta trasformando in lotta politica. Dai primi giorni dopo i pogrom nei kibbutz che confinano con Gaza, un lungo tavolo in Piazza degli Ostaggi era diventato il luogo in cui l’assenza era diventata un’immagine concreta e chi lo aveva allestito, con le sedie vuote con appesi i volti degli ostaggi, forse non avrebbe immaginato che tutto Israele per la festa della Pasqua si sarebbe riempito di tavoli apparecchiati per qualcuno che non si sarebbe potuto sedere. Nel kibbutz di Be’eri, il 7 ottobre sono state uccise più di cento persone, trenta sono state catturate, tredici sono state liberate a novembre, sei sono morte durante la prigionia e undici rimangono ancora nella Striscia. I sopravvissuti hanno deciso di andare a Tel Aviv e di sedersi proprio nella Piazza degli Ostaggi per mostrare tutte le sedie rimaste vuote, per ora oppure in eterno, durante il seder di Pasqua.

 

Seder in ebraico vuol dire ordine, indica tutti i riti e le tradizioni che si svolgono per la festa e quest’anno, gli israeliani hanno deciso che i loro seder sarebbero stati ribattezzati “non seder”, perché più che della festa hanno la forma della protesta, più dell’ordine sono il simbolo di un paese messo a soqquadro dall’attacco del 7 ottobre. Alcuni tavoli sono stati dati alle fiamme, un “non seder” è stato organizzato anche davanti alla casa del primo ministro Benjamin Netanyahu a Cesarea. I manifestanti urlavano contro il premier, chiedevano un accordo a ogni costo e invece di versare il vino rosso tradizionale della festa, il tavolo è stato imbrattato di vernice. La festa della Pasqua celebra il ritorno e nel paese delle assenze risulta impossibile, stonato, offensivo ricordare la fine delle prigionie di un tempo quando ancora tanti israeliani sono in prigionia oggi. 

 

La parola “negoziato” è scomparsa, dopo gli ultimi rifiuti di Hamas di acconsentire alle sei settimane di cessate il fuoco e alla liberazione di quaranta sequestrati in cambio della scarcerazione di un numero molto superiore di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, e nessuno tra i negoziatori è stato in grado di pensare a una nuova proposta. Non ci sono più viaggi  tra gli emissari, soltanto una notizia che potrebbe chiudere un canale di comunicazione che finora è stato importante: il Qatar sta pensando di rinunciare al suo ruolo di mediatore. Doha ritiene di essere oggetto di una campagna denigratoria per il suo rapporto con Hamas, e rivendica la sua serietà nei negoziati. Alcuni esponenti della politica israeliana e anche membri dell’intelligence avevano invece accusato il Qatar di non fare abbastanza pressione sui terroristi, ma se adesso i qatarini si sfilassero dai negoziati, sarebbe complesso trovare un nuovo mediatore e  il più remoto degli sforzi dovrebbe essere ricostruito da capo, in un momento in cui Hamas si sente abbastanza forte da tentare un ritorno a nord della Striscia e di rifiutare le proposte di cessate il fuoco. I famigliari degli ostaggi seguono queste notizie, e le lamentele che un tempo riguardavano soltanto Netanyahu adesso si stanno espandendo a tutto il gabinetto di guerra, con lentezza e tatto nei confronti di chi, come l’ex capo di stato maggiore Gadi Eisenkot, ha pagato la guerra con la perdita di un figlio al fronte. Eisenkot era a Piazza degli Ostaggi con le altre famiglie, assieme a lui c’era anche il ministro della Difesa Yoav Gallant, nessuno ha gridato contro di loro, nessuno li ha cacciati. Netanyahu è il più distante e meno empatico, ma non decide da solo. 
Ogni famiglia reinterpreta i seder a modo suo, ognuno, oltre alle sedie vuote, quest’anno ha scelto di mettere sul tavolo un cibo diverso. Anche questa è una tradizione, quando nel 2014 iniziò la guerra in Ucraina, nei seder comparvero i semi di girasole, simbolo del paese e  anche della resistenza di Kyiv. 
 

Di più su questi argomenti:
  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)