Tutti gli scandali sportivi di Pechino dopo le accuse di doping ai Giochi di Tokyo
L'ossessione cinese per gli ori olimpici, tra orgoglio patriottico e ambizione di potenza olimpica
Dopo l'inchiesta del New York Times e dell'emittente tedesca Ard si è accesa una luce sull'agenzia mondiale antidoping Wada. Sun Yang, Wang Junxia, Dong Fangxiao, Peng Shuai: la Cina ha una lunga storia di sistema di doping, pratiche illegali e insabbiamenti nelle competizioni sportive
Dopo l’inchiesta pubblicata dal New York Times secondo cui 23 nuotatori cinesi prima delle Olimpiadi di Tokyo 2021 sarebbero risultati positivi alla trimetazidina – tredici di loro hanno vinto alcune medaglie tra cui tre ori – si è accesa una luce sulla Wada, l’agenzia mondiale antidoping, su quanto siano efficaci i controlli antidoping nei giochi olimpici e, soprattutto, sulle pressioni della Repubblica popolare cinese sulla scena sportiva mondiale. Secondo il giornale americano e l’emittente tedesca Ard, la Wada avrebbe scelto di non intervenire sull’accaduto, di non rendere pubblici i risultati affermando che, anche dopo che alcuni funzionari antidoping nazionali e internazionali hanno ripetutamente fornito informazioni che suggerivano un insabbiamento e il doping da parte dei nuotatori cinesi, ci fosse “una mancanza di qualsiasi credibilità prove”. L’agenzia lunedì ha spiegato di aver riconosciuto i test e accettato le spiegazioni dell’agenzia antidoping cinese, Chinada, secondo cui i test positivi erano il risultato di una “contaminazione accidentale”.
Non è il primo scandalo attorno alla Wada, la stessa agenzia che nel 2019 ha bandito la Russia dalle competizioni internazionali: anche in quel caso c’era stato un tentativo di insabbiamento da parte di Mosca del “doping di stato”, uno dei programmi antidoping più sofisticati della storia dello sport. Ma anche Pechino ha una lunga storia di sistema di doping e pratiche illegali nelle competizioni sportive: già nel 2014 il nuotatore cinese Sun Yang utilizzò la stessa sostanza dei 23 nuotatori, la trimetazidina, e la mezzofondista Wang Junxia denunciò di essere stata forzata, assieme ad altri sportivi, ad assumere sostanze illecite. Nel 2010 la ginnasta cinese Dong Fangxiao ha dovuto riconsegnare il bronzo vinto ai Giochi di Sydney del 2000 per aver mentito sulla sua età: aveva allora 14 anni anziché il minimo per competere di 16 anni. Anche le ultime Olimpiadi in Cina di Pechino 2022 erano state ribattezzate “le Olimpiadi dello scandalo” subito dopo la scomparsa della tennista cinese Peng Shuai che aveva accusato di violenza sessuale l’ex vicepremier della Repubblica popolare cinese Zhang Gaoli. E soltanto una settimana fa aveva suscitato molta indignazione anche in Cina il video e l’indagine secondo cui tre atleti africani alla mezza maratona di Pechino, in prossimità del traguardo, hanno rallentato per far vincere un concorrente cinese.
Alla base di questi eventi emerge sempre l’ambizione cinese di forgiare un orgoglio patriottico e di innalzare la Cina a potenza sportiva: l’ossessione di Pechino per gli ori esiste da quando ha preso parte ai Giochi nel 1984, dopo trent’anni di assenza e boicottaggio nei confronti della comunità internazionale. E’ nato così il culto dell’eccellenza anche nello sport, i programmi di addestramento che iniziano dai quattro anni in su e sottopongono i “futuri campioni” a ore di formazione e pressione. Le storie di atleti cinesi costretti a continuare a gareggiare nonostante le malattie, gli infortuni e i parti sono moltissime, così come lo sono le storie di giovani atleti costretti a sottoporsi a sostanze illegali per migliorare le loro prestazioni. Lunedì l’Associated Press ha pubblicato un’altra inchiesta in cui afferma che negli ultimi due anni la Cina avrebbe contribuito con quasi due milioni di dollari in più rispetto al suo fabbisogno annuale ai programmi Wada, compreso un progetto per rafforzare le investigazioni dell’agenzia: nel caso dei 23 nuotatori cinesi, non sono bastati.