la trattativa

Israele non può più aspettare i "no" di Hamas

Micol Flammini

Durante un incontro con i funzionari egiziani, gli israeliani hanno detto che questa è l'ultima occasione: o i terroristi negoziano un accordo serio per liberare gli ostaggi e il cessate il fuoco o inizierà l'operazione contro Rafah

Lo sferragliare dei carri armati israeliani si dirige verso il valico di Rafah, è il suono del conto alla rovescia: o Hamas accetta un accordo o l’operazione per eliminare gli ultimi quattro battaglioni del gruppo di terroristi nella città a sud della Striscia partirà. Ieri una delegazione egiziana è andata in Israele e le parole dei funzionari di Gerusalemme sono state chiare, semplici, essenziali, questa è l’ultima occasione per trattare sugli ostaggi, se non ci saranno progressi, si procede. L’Egitto sa che i preparativi per Rafah sono seri e non si è opposto al fatto che il possibile nuovo giro di colloqui sia a scadenza: o l’accordo o Rafah. 


E’ l’esasperazione di Israele, che ha aspettato e si è visto rimandare indietro ogni negoziato dal leader di Hamas, Yahya Sinwar, che da dentro Gaza crede di poter vincere puntando contro lo stato ebraico la pressione internazionale e quella interna, e tanto basterà per rimanere al potere. Il nuovo giro negoziale parte con degli obiettivi davvero rimpiccioliti per Israele, che è pronto a prendere in considerazione il rilascio di soli trentatré ostaggi e non di quaranta come aveva richiesto qualche settimana fa: nella Striscia ne rimangono più di centotrenta, non si sa quanti siano i morti, quanti i malati. Trentatré sarebbe il numero di prigionieri che comprende donne non militari, uomini che hanno più di cinquant’anni e persone in gravi condizioni di salute. Sono trascorsi più di duecento giorni da quando i cittadini israeliani sono stati rapiti, secondo l’intelligence israeliana sarebbero molti i malati ai quali non sono stati recapitati i medicinali che erano parte di un accordo con la Croce Rossa che Hamas non ha mai rispettato. Dai racconti degli ostaggi che sono stati rilasciati durante la tregua di novembre, dai resoconti di una vita al buio, dentro ai tunnel umidi, con nessuna cura, torture fisiche e psicologiche continue, è impensabile che soltanto un numero ridotto si trovino in condizioni precarie di salute. In cambio i terroristi otterrebbero sei settimane di cessate il fuoco, il ritorno a nord dei gazawi e la liberazione dalle carceri israeliane di palestinesi incriminati anche per reati di sangue. La flessibilità non è bastata per convincere Hamas, il gruppo non si è saziato di tutti i “no” detti finora e rimane la pressione su Rafah, perché gli ostaggi devono tornare e la loro permanenza nella Striscia, come il 7 ottobre, sta cambiando i connotati della società israeliana. 


Hamas ha sempre avuto dalla sua parte la capacità di far finire la guerra all’istante, sarebbe bastato liberare i prigionieri. Nella visione dei terroristi poco importano le bombe contro la Striscia e neppure il rischio legato alla fame. Nelle ultime settimane Israele si è impegnato ad aumentare il numero degli aiuti che entrano a Gaza, ha permesso alle navi di attraccare nel porto di Ashdod e ha aperto il valico di Erez, consentendo così di rifornire direttamente la parte nord della Striscia senza che i camion umanitari debbano attraversare tutto il sud, finendo preda di razzie e rischiando di non arrivare mai nella parte settentrionale. Il miglioramento è stato notato e lodato dagli Stati Uniti, che hanno iniziato la costruzione di un pontile per permettere alle navi cariche di aiuti di scaricare a poche miglia dalla Striscia, aprendo così un’altra via di accesso. Le operazioni di costruzione vanno avanti tra molti rischi e questa settimana sono state bersagliate da colpi di mortaio che partivano da Hamas o dal Jihad islamico. In quel momento il personale delle Nazioni Unite era sul posto, c’è stato un ferito lieve e alcune strutture sono state danneggiate. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)