il prof. di battaglia
Shai Davidai, di sinistra e contro Netanyahu, protesta contro gli studenti della Columbia
Nell'istituto americano protestano contro il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e sul rapporto tra la Casa Bianca e Israele. Al professore che ha affrontato i manifestanti non è stato permesso di entrare nel campus
Le proteste iniziate dagli studenti della Columbia University hanno trasformato il campus di Manhattan in un piccolo ecosistema dove prendono campo tutti i dibattiti sulla politica militare del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e sul rapporto tra la Casa Bianca e Israele. Molti politici di Capitol Hill di ogni parte politica hanno usato il campus come podio. Gli studenti, che hanno costruito un accampamento con tende da campeggio, oltre a chiedere il cessate il fuoco e a sventolare bandiere palestinesi, vogliono che l’università tagli ogni legame finanziario con aziende israeliane. La presidente Minouche Shafik ha chiamato la polizia, ma dopo gli arresti della scorsa settimana di oltre un centinaio di studenti, si è creato uno stallo in cui le ambiziose richieste dei manifestanti si scontrano con la vita quotidiana dell’università, prima degli esami e della pausa estiva.
Diversi membri del corpo insegnanti martedì hanno deciso di manifestare contro la loro stessa università per difendere il diritto di protestare. Ma alcuni professori, come Shai Davidai, hanno deciso di andare controcorrente. Davidai lunedì scorso ha chiesto di essere scortato verso l’accampamento, voleva ripetere agli studenti filopalestinesi i nomi dei 133 ostaggi che da ottobre sono ancora nelle mani di Hamas, ma la sicurezza dell’università non gli ha fornito alcun tipo di sostegno. Così, il giorno dopo, si è presentato al cancello dell’università circondato da telecamere e sostenitori di Israele, ma la sua card che gli permette, in quanto docente, di accedere al campus era stata disattivata. Un agente della sicurezza non lo ha fatto entrare e lui ha detto: “Non potete lasciare che nel campus entrino i sostenitori di Hamas, mentre io, professore, non posso entrare”.
Davidai, quarantenne, insegna alla Columbia Business School ed è nato in Israele da una famiglia facoltosa. Ha preso attivamente parte alle proteste contro il governo Netanyahu a Tel Aviv, dove si è preso un pugno in faccia (da un poliziotto sotto copertura, dice). “Sono un israeliano di sinistra, sono pro Palestina. Sono pro Israele”. Ma giustificare il 7 ottobre, dice, questo no. Non ha mai accettato che negli ultimi mesi ci fossero, nella città americana dove ha scelto di vivere, gruppi che festeggiavano l’attacco di Hamas, che esultavano in piazza urlando “Intifada” e “dal fiume al mare”. Ora, dice, “l’università sta negoziando con i terroristi”, ed è convinto che Shafik dovrebbe chiamare la Guardia nazionale per sgombrare l’accampamento, e invece non fa nulla. In un’intervista al New York Magazine ha detto che è in corso un lavaggio del cervello ideologico pro Hamas che va a scapito degli studenti ebrei. E spingere l’ideologia terroristica non è così diverso da essere dei terroristi. “Non lo fai con una pistola, o con una cintura esplosiva, ma lo fai spingendo un’ideologia. Goebbels era un nazista. Ma non ha mai tenuto in mano una pistola”, dice.
La sua battaglia contro l’antisemitismo universitario precede le tende da campeggio sul quad. Già a ottobre aveva attaccato Shafik per non aver fatto niente sulla presenza nel campus di “organizzazioni studentesche proterroristiche”. Da mesi si scontra sui social con alcuni studenti, criticando il clima permeato di antisemitismo che ha portato due settimane fa Shafik ad apparire davanti a una commissione della Camera. Da mesi Davidai condivide video e foto di scene che reputa pericolose per l’America e l’occidente, come la bandiera gialla e verde di Hezbollah – organizzazione terroristica libanese – sventolata nel centro di New York. Da mesi dice che alla leadership della Columbia interessano solamente i soldi e le relazioni pubbliche, e quindi non vuole inimicarsi troppo gli studenti, che pagano rette esorbitanti. La scusa della libertà d’espressione è diventato un velo dietro cui si sono nascoste varie presidenti delle università Ivy League, ma che ha comunque portato alle loro dimissioni quando i casi di intimidazione sono diventati troppo espliciti, come è accaduto a Harvard e all’Università della Pennsylvania.
Davidai dice che se sarà licenziato, se ci saranno delle ripercussioni sulla sua carriera, non è importante. E’ convinto di aver scelto una battaglia giusta, a differenza, dice, di quei professori che protestano insieme agli studenti o di quelli che sono stati zitti e che gli ricordano i professori delle università tedesche durante il nazismo che rimasero in silenzio.