in Iran
La Repubblica islamica applica un di più di sadismo al rapper-operaio condannato a morte
“Toomaj ci rappresenta. Liberiamo lui e l’Iran”, è il nuovo slogan della protesta contro il cappio politico. Operai e maestre in sciopero mentre i dirigenti del carcere proibiscono le telefonate tra il rapper nel braccio della morte e i suoi genitori
Da due settimane la repressione iraniana ha accelerato e i manifestanti come Sadira, che non segue le regole e ha un profilo Instagram pieno di foto al parco con i capelli liberi e foto alle feste con un tubino che lascia scoperte le gambe, non potendo parlare di “svolta autoritaria” per la Repubblica islamica, dicono che è in corso una “escalation autoritaria”. L’esempio più visibile, non l’unico, è la condanna a morte del metalmeccanico e rapper trentenne Toomaj Salehi. Lunedì i dirigenti della prigione Dastgerd di Isfahan hanno annunciato alla famiglia Salehi un divieto perverso e hanno detto: da questo momento le telefonate a vostro figlio sono proibite. Il braccio della morte è il settore di un carcere dove i guardiani sono più generosi di telefonate ai parenti – non per Toomaj, che è il simbolo di tutto quello che gli ayatollah vogliono cancellare. Poche ore dopo, nella prigione di Dastgerd è stato diramato un comunicato che dice: tutti i detenuti che incontrando Salehi dovessero rivolgergli la parola, “affronteranno punizioni severe”.
A Toomaj si applica un livello ulteriore di sadismo perché è il volto più riconoscibile della protesta che alla fine del 2022 ha incendiato l’Iran nella capitale e nelle periferie abitate dalle minoranze etniche, nei politecnici e nelle strade della città sacra e conservatrice di Qom. Ed è il ribelle che usa le parole più esplicite (dice che il dittatore e i suoi complici pagheranno col sangue, registra videoclip con la bandiera ucraina) e ha il megafono più potente: due milioni e mezzo di follower su Instagram e quasi un milione su X.
Ieri gli operai hanno marciato per le strade di Teheran con il cartello “Toomaj ci rappresenta. Liberiamo lui e l’Iran”: sono colleghi del condannato, sono gli stessi operai del sindacato indipendente che a settembre del 2022 avevano scioperato per settimane in sincrono con la protesta Donna, vita, libertà e che nella notte in cui i pasdaran hanno lanciato 300 droni e missili contro Israele hanno diffuso un comunicato con scritto: “Questa non è la nostra guerra”. Da lunedì, in due province le maestre si rifiutano di fare lezione e promettono che non torneranno in classe finché Toomaj non sarà libero.
Gli altri detenuti politici, e tra loro la premio Nobel per la pace del 2023 Narges Mohammadi, hanno pubblicato una lettera per protestare in cui scrivono: “La punizione per il nostro silenzio oggi sarebbe la condanna a morte di tutti noi domani. Questa fase di orrore abissale per l’Iran finirà nella potenza della nostra resistenza nelle strade”. Il musicista Khashayar Sefidi, che era stato licenziato dall’Istituto di musica iraniano per aver protestato in strada nel settembre del 2022, ora è seduto al centro della Casa della musica di Teheran e da una settimana porta avanti uno sciopero della fame contro la pena di morte per il suo collega. Ha deciso di mostrare in pubblico, a chiunque voglia guardare, il suo corpo che ogni giorno diventa più malaticcio e smunto perché “in Iran non ho più a disposizione nient’altro che il mio corpo e la mia forza di volontà”. Il conto in banca di Sefidi è bloccato e il suo passaporto è stato ritirato – ha subìto la stessa punizione riservata a decine di altri pianisti, cantanti, attrici e attori che parteciparono ai cortei dopo la morte di Mahsa Jina Amini mentre era in custodia della polizia morale nel 2022. Ieri un’inchiesta della Bbc ha svelato che un’altra protagonista della protesta Donna, vita, libertà, la sedicenne Nika Shakarami, è stata molestata e picchiata prima di essere uccisa da tre uomini della “Squadra 12” dei pasdaran: Arash Kalhor, Sadegh Monjazy e Behrooz Sadeghy.
Le pene capitali non sono una novità per l’Iran, che soltanto nell’ultimo anno ha ucciso ottocento suoi cittadini per ordine dei tribunali rivoluzionari, ma da tempo la prassi prevedeva di riservare l’impiccagione ai trafficanti di droga e a chi si fosse macchiato – per davvero o secondo una sentenza arrivata dopo un processo sommario – di crimini di sangue. Tutti i manifestanti uccisi dal boia fino a Toomaj erano stati accusati non soltanto di reati politici – mofsed-e-filarz, corruzione sulla terra, e moharebeh, guerra contro dio – ma anche di aver ferito o ucciso poliziotti, bassiji e sepah (pasdaran). Per questo la Corte suprema d’Iran aveva escluso la possibilità di applicare la pena capitale al caso di Toomaj, finché il giudice Mohammad Reza Tavakoli, soprannominato “l’analfabeta” dai dissidenti, che soffre la competizione con i suoi pari e vuole dimostrarsi il più intransigente e fedele al capo, il 24 aprile si è intestato l’escalation autoritaria e ha decretato che la pena giusta per Toomaj fosse la morte. Il crimine di Toomaj Salehi è, ufficialmente, soltanto nei versi che ha cantato e non nelle sue azioni.