Verso le elezioni americane
Il voto decisivo non è nei campus ed è sottovalutato, ci dice Ben Smith
La grossa fetta di elettori che ha votato prima Barack Obama, poi Donald Trump e poi Joe Biden è ancora troppo ignorata. E intanto, il mondo dei media si frammenta. Parla il fondatore di Semafor
Qualche giorno fa, a una manifestazione all’Università dell’Alabama, è partita una protesta anti Israele. Un gruppo, iniziando una controprotesta, ha iniziato a urlare: “Fuck Joe Biden!”. E in risposta gli altri hanno urlato anche loro: “Fuck Joe Biden!”. Entrambe le parti per un po’ hanno insultato il presidente. Bandiere israeliane e bandiere palestinesi unite dall’odio per Biden. “E’ stato un momento iconico. La guerra è impopolare, le proteste sono impopolari, e anche Joe Biden e Donald Trump sono impopolari”, dice al Foglio il giornalista Ben Smith, fondatore del sito di informazione Semafor. “Bisogna vedere il Partito democratico come una coalizione in stile europeo. Ma penso che non ci sia un’alternativa a Biden. Questa potrebbe essere un’elezione che si vince per poco, ma perdere qualche studente forse non è importante. Se leggi i media americani sembra che la guerra sia nei campus non in medio oriente”. E il voto musulmano in uno stato in bilico come il Michigan? “Se Biden perde ci saranno mille motivi, questo è solo una piccolissima parte”. Secondo Smith il più grande impatto delle proteste su Biden è farlo sembrare un debole, uno senza controllo, lui che aveva promesso la calma dopo gli anni caotici di Trump. “E per l’estate gli studenti tornano a casa. Penso che sia possibile che a novembre ci guarderemo indietro e diremo: ti ricordi quella roba assurda che è successa ad aprile?”.
Smith ricorda che c’è una grossa fetta di elettori che è sottovalutata, che non è interessante per i media, ma che ha votato prima Barack Obama poi Donald Trump e poi Joe Biden: “Molto strano, ma è così. Quando seguivo le elezioni del 2008 ho visto una casa in Indiana che era stata storicamente la sede del Ku Klux Klan: c’era un cartello pro Obama e una bandiera confederata. E’ un paese strano”. Ora Trump sta cercando l’appoggio del voto afroamericano che, “per molti aspetti”, dice Smith, è un suo elettorato ideale: classe lavoratrice, spesso con un passato nell’esercito e posizioni sociali conservatrici”. E gli ispanici? “E’ un bacino molto vario, ci sono i multimilionari col ranch in Texas e i cubani anticomunisti appena arrivati. Tendenzialmente votano ancora democratico. Ma Biden ha fatto l’errore di dire ‘apriamo i confini’, perché gli immigrati regolari odiano quelli irregolari. Il Partito repubblicano sta diventando più legato a una classe lavoratrice multirazziale. In generale “sembra un’elezione dove sappiamo tutto dei candidati e nessuno sembra cambiare opinione. E poi ci sono le forze tettoniche dell’economia che avranno un grande effetto sul voto”, ma di cui si parla poco.
Ben Smith è in Italia per presentare il suo saggio “Traffic” (edito da Altrecose, traduzione di A. Grechi), ci vediamo a pranzo a Milano, dove è appena atterrato. In “Traffic” parla dell’evoluzione dei media negli ultimi anni – lui che ne è stato protagonista tra BuzzFeed, Politico e il New York Times – e dei social: “Quando ha vinto Trump, Facebook era concentrato sull’engagement, e le divisioni portano engagement. Ora non funziona più così, i social non spingono più il populismo allo stesso livello, seppure siano ancora più forti di prima nel diffondere la disinformazione. Chi pensa che Facebook abbia creato Trump sbaglia. E quello che stiamo vivendo lo dimostra”. Trump c’è ancora e Facebook è morto. “Negli anni Dieci di questo secolo, c’è stata una coincidenza tra potere dei social e populismo internazionale, dove il leader doveva mostrare che era un outsider dicendo qualcosa di vergognoso, di sessista o di falso per fare in modo che l’establishment lo attaccasse e quindi lui potesse dire alla gente: vedete sono come voi, sono un outsider. Abbiamo gli stessi nemici’”, dice Smith, che però è convinto che ora i social non abbiano la stessa forza.
E anche i media sono cambiati, prima inseguivano tutti lo stesso traffico social, ora vogliono differenziarlo, gli editori cercano audience più piccole e più attive. Il pubblico che cerca Semafor, anche con il suo focus così poco americano su altre parti del mondo, come sull’Africa, è quello di un pubblico che “non legge per validare la propria opinione politica, e che conosce già le informazioni”, come quelle che si trovano nelle slide di Instagram di molti giornali. “Il grosso trend è la frammentazione. Non puoi capire qual è la direzione dei media, perché ognuno ha la sua”, dice Smith. “Le statistiche dicono che c’è un podcast preferito dagli americani, quello di Joe Rogan, ma è solo al 5 per cento. Nessun creatore di podcast è dominante. La tv è uguale, ogni anno i network diventano più piccoli. Tutto si sta rimpicciolendo”. Alcuni in questo vedono il rischio di bolle sempre più isolate. “Ma la polarizzazione degli ultimi anni è stata creata invece in un ambiente aperto, dove c’era lo spazio per urlarsi addosso a vicenda”. Sulle nuove generazioni Smith non è troppo preoccupato, dice che tanto i giovani non hanno mai letto molti giornali: “Sono scettico sugli studi sulla Generazione Z. Vediamo cosa leggono quando hanno trent’anni”.
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