Il rapporto tra Israele e Biden non si ferma a Rafah
Le delegazioni lasciano il Cairo. Netanyahu dice: combatteremo con le unghie, ma abbiamo molto di più
Nel 1981 Israele stava bombardando Beirut, per colpire alcuni obiettivi dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina che aveva preso ad attaccare quotidianamente il territorio israeliano. L’Organizzazione era stata ben rifornita dall’Unione sovietica e uno dei missili colpì l’ospedale della città di Nahariya. Israele rispose colpendo più forte, tanto forte che il presidente americano Ronald Reagan negò allo stato ebraico una consegna di F-16. A molti, la decisione di Joe Biden ha ricordato quella di Reagan. Ieri le delegazioni hanno lasciato il Cairo, il direttore della Cia Bill Burns è tornato negli Stati Uniti e la possibilità di un accordo è impigliata tra i ricatti di Hamas e le operazioni di Israele dentro alla Striscia. Appena i cittadini israeliani hanno appreso la notizia che al Cairo era tutto fermo, sono scesi per strada a protestare e chiedere un accordo costi quel che costi.
Il gabinetto di guerra si è riunito per discutere delle armi americane e delle parole di Biden, sulle quali la Casa Bianca ha voluto fare alcune precisazioni, dicendo che il presidente americano non ha intenzione di abbandonare Israele, ma crede che un’offensiva a Rafah renderebbe Hamas più forte sul tavolo dei negoziati. Il portavoce John Kirby ha detto che il punto di vista degli Stati Uniti è che se aumentassero le vittime civili dentro alla Striscia, i terroristi si sentirebbero nella posizione di chiedere di più: “Se sono il signor Sinwar e sto nel mio tunnel… e vedo che persone innocenti cadono vittime di importanti combattimenti a Rafah, allora ho meno incentivi a partecipare ai negoziati”. Per il leader di Hamas le vittime civili sono uno strumento per aumentare la pressione internazionale contro Israele, ma se anche lui si trova nei tunnel di Rafah e Tsahal si avvicina – e si sta avvicinando – potrebbe preferire fermare l’offensiva con un accordo momentaneo.
Le attenzioni sulle mosse di Tsahal e le decisioni del governo israeliano allontanano gli occhi dal fronte nord di Israele, dove gli attacchi di Hezbollah sono aumentati. E’ una guerra che si sente anche se non si vede. Israele continua a cercare e a colpire gli uomini delle forze Radwan di Hezbollah che hanno il compito di stare attaccati al confine, colpire e organizzare incursioni lungo i confini. Le perdite nei ranghi di Hezbollah sono quasi trecento e i miliziani non risparmiano il fuoco, conducono attacchi quotidiani che colpiscono i soldati israeliani. Il ministro della Difesa Yoav Gallant non smette di avvertire che la situazione sul fronte nord è tesa e si fa sempre più pressante. Gli attacchi stanno aumentando, uno scontro con Hezbollah sarebbe più forte di quello con Hamas, i miliziani sciiti sono ben armati e addestrati, a frenarli da un attacco totale contro Israele per ora è la consapevolezza che il Libano non vuole la guerra, e a qualsiasi atto Israele è ancora in grado di rispondere con un conflitto devastante.
La prossima settimana sarà la festa dell’Indipendenza in Israele e come tutte le feste che si sono celebrate dal 7 ottobre in poi, l’atmosfera sarà strana e in sordina. Saranno giorni di dichiarazioni ed evocazioni, il premier Benjamin Netanyahu ha già incominciato e le sue parole sono una risposta a Biden e sono dirette a ogni confine: “Eravamo pochi contro molti. Non avevamo armi, c’era un embargo ma con la forza d’animo, il coraggio e l’unità dentro di noi, abbiamo vinto. Oggi siamo molto più forti e siamo uniti per sconfiggere il nostro nemico e coloro che desiderano ucciderci, resisteremo da soli. Ho già detto che, se necessario, combatteremo con le unghie. Ma abbiamo molto più delle unghie, e con quella stessa forza d’animo, con l’aiuto di Dio vinceremo insieme”.