medio oriente

La guerra lunga non funziona per Israele

Nello stato ebraico c'è un grande dibattito sui tempi della guerra. È la velocità il successo delle offensive del paese, ma l'esercito non è più in grado

Micol Flammini

Hamas non ha fretta, crede che i tempi lenti lo rafforzino ed è pronto a prendersi il merito del voto dell’Assemblea generale dell’Onu per rafforzare la missione palestinese

Il gabinetto di guerra israeliano ha votato a favore di ampliare l’operazione a  Rafah in modo limitato. I carri armati di Tsahal hanno diviso in due la città e la parte orientale, quella più vicina al confine israeliano, è stata isolata. E’ da febbraio che Rafah è al centro del dibattito, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato più e più volte di aver dato l’ordine di preparare tutto per un’offensiva contro la città, i quattro battaglioni di Hamas sono vivi e vegeti nelle profondità di Rafah e gli Stati Uniti, da quando si parla della città dove  la popolazione è più che quadruplicata, hanno cercato di trattenere Israele senza troppa convinzione: bloccare adesso la consegna di alcune armi non lascia Tsahal senza mezzi per attaccare Rafah. 


 In Israele c’è un vivo dibattito sui tempi della guerra e in molti si sono dati una risposta: questo conflitto sta durando troppo, l’esercito procede con lentezza, prendendosi giorni  che non ha.  Il giornalista del Times of Israel Lazar Berman ha spiegato che in questa guerra la velocità è fondamentale e invece l’esercito è cambiato in modo radicale rispetto al passato e non è più in grado di sostenere un conflitto rapido. E’ stata la velocità a dargli il vantaggio quando Israele venne attaccato da più lati e da più nemici, ma quando i conflitti contro lo stato ebraico sono cambiati e ha dovuto  affrontare non  più eserciti ma dei gruppi armati, la struttura di Tsahal ha iniziato a smontarsi.   


Più la guerra si allunga, più Hamas ne avrà dei benefici e l’errore non è soltanto politico ma è anche militare. L’offensiva contro la Striscia di Gaza è iniziata tardi, venti giorni dopo il 7 ottobre, quando ormai la comunità internazionale aveva dimenticato cosa era accaduto durante gli attacchi dei terroristi ai kibbutz, aveva dimenticato i morti, i rapiti, i corpi bruciati. Il sostegno a Israele era svanito e Hamas aveva già capito che con facilità avrebbe potuto portarlo dalla sua parte. Il secondo errore è stato quello di attaccare un settore di Gaza alla volta, di dividere in due la Striscia, di puntare prima su Gaza City, poi su Khan Younis infine su Rafah, consentendo ai terroristi di avere sempre un posto in cui nascondersi e spostarsi. Che Rafah fosse uno degli snodi fondamentali delle operazioni dei terroristi non era un segreto, ma da un lato Tsahal non era addestrato per attaccare tutte le città contemporaneamente e dall’altro doveva fornire alla popolazione civile bloccata nella Striscia  un posto in cui rifugiarsi. E’ trascorso troppo tempo dall’annuncio dell’invasione al momento in cui l’invasione è avvenuta e troppo tempo da quando Israele ha iniziato a parlare della necessità di andare a Rafah a quando ha effettuato  le manovre per procedere. Dopo i primi quattro mesi di guerra, Israele ha dovuto congedare parte dei riservisti perché l’economia del paese ne aveva bisogno e con meno uomini le operazioni nella Striscia sono cambiate. Il tempo ha rafforzato Hamas sul tavolo dei negoziati, l’ha convinto che quanto più Israele fosse stato costretto a una guerra lunga, tanto maggiore sarebbe stata la capacità dei terroristi di sopravvivere. Il calcolo non è stato sbagliato dal punto di vista del sostegno internazionale: oggi l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione per  rafforzare la posizione della missione palestinese e Hamas è pronto a prendersi i meriti. 


Agli attacchi di Tsahal, finora i terroristi hanno risposto disperdendo i battaglioni, e raggruppandosi una volta che i soldati israeliani si erano ritirati. Hamas è militarmente indebolito, ma lancia segnali di non esserlo mentalmente. Un esempio lo ha dato domenica scorsa: mentre i negoziati al Cairo, secondo i mediatori, procedevano in modo positivo, i terroristi hanno ripreso a lanciare razzi, colpendo anche il valico di Kerem Shalom e uccidendo quattro soldati israeliani. I razzi erano stati lanciati proprio dall’area di Rafah ed era normale che da quel momento i negoziati cambiassero e gli israeliani si facessero più aggressivi nel tentativo di cercare di costringere Hamas a un accordo. I terroristi però  sembrano fiduciosi nel fatto che potranno riorganizzarsi, ricostituire le loro formazioni militari e riprendere il potere dentro alla Striscia di Gaza. Perdere altro tempo allontanerebbe ancora di più Israele dall’obiettivo di eliminare la struttura militare di Hamas e uno degli errori che Berman evidenzia nel suo pezzo sta nel fatto che non c’è un piano per sostituire i terroristi. Il vuoto di potere fa sì che Hamas torni, più tempo passa tra un’offensiva e l’altra, più i terroristi riescono a ristabilire la catena di comando. 


Il dibattito sul ritmo della guerra è intenso in Israele, finora le colpe si sono concentrate sulla parte politica, sulla mancanza di pianificazione da parte del governo, ma presto arriverà il momento in cui si indagherà sulle scelte dell’esercito. Hamas è convinto di avere il tempo dalla sua parte. Il tempo che serve a stancare Tsahal. Il tempo che serve a far crescere la pressione internazionale. Il tempo che serve a far dimenticare cosa è accaduto il 7 ottobre. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)