L'editoriale dell'elefantino
Scegliere tra Rafah e Riad non è un'alternativa per Israele
Un accordo di tregua permanente decreterebbe la vittoria finale degli aguzzini di Hamas. Lo slogan caro all’estrema sinistra democratica è una sciocchezza: lo stato ebraico non ha scelta
Si sa tutto, in realtà, oltre la nebbia di guerra. Non è la prima volta che gli Stati Uniti e Israele dissentono duramente sulla conduzione di una guerra di difesa dello stato ebraico. Il grande e drammatico gioco diplomatico e politico, nella circostanza che riguarda la ridotta terrorista di Rafah, verte su questo quesito: come si fa a obbligare l’ala militare di Hamas, responsabile del 7 ottobre, ad accettare un vero accordo di tregua e di scambio di prigionieri senza che questo accordo consista in una resa di Tsahal, in una rinuncia a punire gli autori del pogrom e a smantellare il corpo fondamentale di quell’organizzazione nichilista e terrorista? Non è facile, il tutto corre sul binario dell’ambiguità, della mediazione, della controinformazione, con le aggravanti della campagna umanitaria internazionale contro Israele che rende complicata ogni mossa contro predoni che usano il popolo civile e gli israeliani ancora prigionieri nei tunnel come ostaggio. Sinwar e Deif, i capi residui e decisivi di Hamas, sono i nemici implacabili di un accordo che alla fine, con misure di estraneazione dei civili dal teatro di guerra e in una condizione di tregua, provvisoria e contrattata, condurrebbe al loro smantellamento e annientamento. La loro partita è l’isolamento internazionale di Israele e la caduta del governo che guida i combattimenti, la partita di Israele e, salvo oscillazioni, anche di Biden alleato e partner, è il loro isolamento e la loro resa a discrezione, con un progetto di stabilizzazione di Gaza affidato a arabi nemici della Fratellanza musulmana, senza e contro di loro.
La storia di Netanyahu prigioniero di destre oltranziste e desideroso di prolungare la guerra per prolungare la vita del suo governo non regge alle leggi della logica politica, per non parlare del suo intrinseco pregiudizio di tipo moralistico e dell’accanimento nella ricerca di un capro espiatorio israeliano per tutta la drammatica vicenda. Biden e i suoi, compresi quelli che vengono chiamati gli Obama boys in una situazione delicatissima di vigilia elettorale e di crisi anche morale dei democratici americani investiti dal movimento del Mein Kampus, calibrano le loro mosse per mantenere l’operazione di Rafah, anche sul piano militare che unanimemente il governo di Gerusalemme ha impostato, sul filo di questo equilibrio instabile e periglioso. Il capo dell’opposizione nel governo di unità, Benny Gantz, ha fatto sapere: l’accordo truccato voluto da Sinwar è un equivoco impalatabile, è come se i pompieri decidessero di spegnere l’incendio all’80 per cento. Piuttosto chiaro. Non regge nemmeno il dibattito sui fondamentali inteso come possibilità di sradicare Hamas, possibilità che alcuni anche in Israele cominciano a negare senza tante sottigliezze, ma in una condizione di assoluta minoranza nell’opinione pubblica pur attraversata dalla ondata sacrosanta di pietà e dalla necessità, anche per Netanyahu, di ottenere la riconsegna dei rapiti del 7 ottobre. Israele non ha alternative. Un accordo di tregua permanente decreterebbe la vittoria finale per gli aguzzini di Hamas, e non sarebbe ben visto nemmeno da egiziani e sauditi, inimicissimi verso il partito dei Fratelli musulmani in armi, lasciamo stare gli ambigui quattrinari qatarioti. Scegliere tra Rafah e Riad, che è lo slogan impiegato da Tom Friedman sul New York Times e abbracciato dall’estrema sinistra democratica e dai nemici israeliani di Netanyahu, è una sciocchezza. Questa scelta non esiste, non c’è alternativa per Israele. Riad senza Rafah equivale a una vittoria di Sinwar e Deif, non se ne parla.