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in spagna

Si vota in Catalogna e c'è aria di un Puigdemont molto dispettoso

Guido De Franceschi

Salvo clamorosi errori nei sondaggi il partito più votato sarà il brand locale del Psoe di Sánchez. La principale incognita è invece quella relativa agli indipendentisti: dal loro risultato può dipendere la tenuta del governo nazionale

Domenica si vota in Catalogna. La politica spagnola si prepara quindi a un altro vorticoso giro di giostra, pur essendo ancora alle prese con i postumi delle “cinque giornate” di Pedro Sánchez, ovvero quel periodo di silenzio che alla fine di aprile il premier socialista aveva deciso di prendersi per capire se riteneva che valesse la pena di rimanere in carica (l’esito della riflessione è stato: “Sì, continuerò con più forza”). Con quella mossa del tutto irrituale, su cui non si è ancora posata la polvere, Sánchez ha assorbito tutta l’attenzione che proprio in quei giorni avrebbe dovuto rivolgersi invece alla campagna elettorale catalana. Nelle intenzioni di Carles Puigdemont, quell’ultima settimana di aprile, avrebbe dovuto essere l’introduzione al suo nostos, all’epico ritorno del president de la Generalitat de Catalunya, dopo più di sette anni di “esilio belga”, sulla poltrona da cui era stato cacciato nel 2017 da quei magistrati che, applicando le leggi spagnole, lo volevano arrestare per aver organizzato un referendum illegale di autodeterminazione e aver dichiarato l’indipendenza. Ma Amleto Sánchez ha rubato la scena a Odisseo Puigdemont – e la battaglia dell’ego è finita 1 a 0 per il premier.

 

Domenica il partito più votato, salvo clamorosi errori nei sondaggi, sarà il Partit dels socialistes de Catalunya, che è il brand locale del Psoe di Sánchez. La principale incognita è invece quella relativa al risultato degli indipendentisti, e cioè al numero di seggi ottenuti complessivamente da Junts (la piattaforma politica, tra centro e centrodestra, guidata da Puigdemont), da Esquerra republicana de Catalunya (Erc, che raccoglie la sinistra separatista) e dalla sinistra radicale movimentista e antisistema della Candidatura d’Unitat Popular (Cup). A questa già ampia offerta elettorale dell’indipendentismo catalano, che nella sua capacità di coprire tutto lo spettro non ha uguali al mondo, si è aggiunta ora anche Aliança Catalana, il movimento di estrema destra fondato dalla sindaca di Ripoll, Sílvia Orriols, che interpreta il separatismo in chiave anti immigrat. I tre partiti indipendentisti “pregressi”, ovvero Junts, Erc e la Cup, che hanno escluso ogni possibile accordo con Aliança Catalana, rischiano di non ottenere, per la prima volta in molti anni, la maggioranza assoluta dei seggi.

 

Partiamo però dallo scenario opposto, analizzando quindi che cosa succederebbe se le sigle separatiste riuscissero invece a sommare i 68 seggi necessari a varare un governo: in quel caso, Puigdemont pretenderebbe di tornare presidente della Catalogna facendo leva sulla prevalenza elettorale di Junts sugli altri due movimenti e sfruttando l’implementazione di quella legge sull’amnistia che Sánchez  ha varato su misura per lui. Il buon risultato dei socialisti in Catalogna si rivelerebbe quindi del tutto inutile, a Barcellona si riaprirebbero le danze sull’autodeterminazione e tutto questo indebolirebbe molto Sánchez. Ma se invece domenica, a fronte di un buon risultato dei socialisti, la litigiosa famiglia indipendentista perdesse la maggioranza assoluta, anche solo per un seggio, ecco che lo scenario cambierebbe del tutto. Sánchez potrebbe dimostrare con i numeri che la sua strategia morbida nei rapporti con l’indipendentismo è stata più efficace di quella, a muso duro, predicata dal suo predecessore alla guida del governo spagnolo, il popolare Mariano Rajoy, e degli altri leader del centrodestra. Evitando le maniere forti e il ricorso ai tribunali e concedendo loro qualcosina o talvolta anche moltissimo ecco che i secessionisti non possono più esibire il loro vittimismo e perdono carburante elettorale: questa è la tesi che Sánchez ha assoluto bisogno di dimostrare domenica. Eppure, e questo è il grande paradosso, la minaccia più grave al prolungarsi della permanenza di Sánchez alla Moncloa potrebbe derivare proprio da questo esito, per lui apparentemente ottimale, delle elezioni catalane, ovvero da un successo dei socialisti a cui si accompagni la perdita della maggioranza assoluta dei seggi da parte della galassia secessionista. In quel caso, infatti, Puigdemont  sarebbe molto, molto, ma molto tentato di sottrarre il suo  appoggio al governo nazionale, accelerando la caduta di Sánchez. Quest’ultimo, per salvarsi, può solo amministrare a suo vantaggio l’intessersi dei timori altrui: la paura (di Puigdemont) dell’interruzione dell’iter applicativo dell’amnistia, la paura (di Esquerra) di finire nell’irrilevanza, la paura (di tutti i suoi alleati di governo) della nascita di un governo del Pp appoggiato dai sovranisti di Vox. Il ricorso a questi spauracchi, d’altronde, è una specialità di Sánchez, com’è stato dimostrato anche dallo spaesamento seguito alla sua minaccia di dimissioni. Peccato solo che il più restio di tutti a prestarsi a questo gioco sia proprio Puigdemont. Che è, allo stesso tempo, l’uomo che ha più da perdere da una sconfitta nelle elezioni di domenica, ma anche dalla nascita di un governo nazionalista spagnolo a Madrid. 

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