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L'Opa degli Emiri d'occidente che conquista le nostre università
Non solo aeroporti, lusso e fondi. I petrodollari si stanno comprando anche le nostre migliori università: così gli atenei si trasformano in terreni di influenza geopolitica per paesi come Qatar e Arabia Saudita
"In quattro anni, gli investimenti dei paesi del Golfo in Europa sono aumentati del 180 per cento", rivela il grande quotidiano economico tedesco Handelsblatt. Tra Qatar e Arabia Saudita è in corso non solo una guerra per la supremazia del mondo islamico, ma soprattutto per influenzare l’occidente. C’è il dieci per cento dell’aeroporto di Londra Heathrow che i sauditi hanno appena comprato dopo essere entrati in Telefónica, la prima compagnia telefonica spagnola. La Spagna discute con il Qatar di un fondo di investimento da un miliardo in America Latina. Poi c’è “l’impero tedesco del Qatar”, come lo chiama Politico. L’emiro è presente in Porsche, Volkswagen, Deutsche Bank, Siemens e Bayern Monaco, per citare solo alcuni brand tedeschi. Il Regno Unito ha visto affluire investimenti dal Golfo per 140 miliardi di sterline. Cifre, compilate da UK Declassified, degne di Londra come “ottavo emirato”. Il commercio inglese con sei paesi del Golfo – Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati – vale 45 miliardi di sterline all’anno, il che li rende il quarto partner commerciale dopo Stati Uniti, Unione Europea e Cina. I sauditi hanno una partecipazione di 598 milioni di sterline in British Petroleum. Londra è in parte in mano al Qatar, da Harrods a Canary Wharf. Abdulhadi Mana Al Hajri, cognato dell’emiro al Thani, ha acquistato il Ritz per 700 milioni. Il fondo dell’emiro – il Qatar Investment Authority – possiede anche il 22 per cento di Sainsbury, il sei per cento di Barclays e il venti per cento di Heathrow. La Aston Martin inglese ha invece ricevuto 500 miliardi di sterline dai sauditi.
Il Qatar è anche il più grande acquirente al mondo di arte. L’emiro ha sponsorizzato Damien Hirst e acquistato “I giocatori di carte” di Cézanne per oltre 250 milioni. Il prezzo più alto mai pagato per un’opera d’arte. Il Qatar spende ogni anno un miliardo in opere d’arte. Per capirci, il Museum of Modern Art di New York investe ventuno milioni di dollari, cinquanta volte meno dell’emirato islamico. Per il Museo nazionale di Doha, il Qatar ha arruolato una superstar come l’architetto Jean Nouvel. Nel piccolo emirato, la soumission supera la fantasia di Michel Houellebecq. E quando non è il Qatar, sono i sauditi: 23 milioni di euro al Museo del Louvre.
Ma nella competizione per l’occidente, c’è un investimento che spicca sugli altri: le università. Il Qatar vuole ora investire in “una struttura universitaria nel Regno Unito specializzata in ricerca e sviluppo di energia verde”. Eureka! Cambridge e Oxford le possibili ubicazioni. Il Qatar si è impegnato a finanziare il progetto per vent’anni.
Soltanto dal 2011 al 2016, il Qatar ha donato 330 milioni alla Georgetown University, una cifra astronomica per una singola università. Ma una università che ha un valore strategico per il Qatar: non solo perché è la più antica università cattolica d’America, ma anche per la vicinanza alla capitale e la produzione di diplomatici e legislatori attraverso la sua rinomata School of Foreign Service. I docenti di Georgetown sono accreditati poi come esperti nei media, facendo da cassa di risonanza per l’emiro.
Dal 2001 al 2023, il Qatar ha donato 4,7 miliardi di dollari alle università americane. Tra il 2001 e il 2021, la Carnegie Mellon ha ricevuto 1,4 miliardi di dollari, Harvard 894 milioni, il Mit 859 milioni, la Texas A&M 500 milioni, Yale poco meno di 500 milioni e la Johns Hopkins 402 milioni. Oltre alle università, il Qatar contribuisce generosamente ai think tank americani, come il Brookings Institute. Secondo un rapporto del Center for International Policy, anche lo Stimson Center ha ricevuto finanziamenti dal Qatar: 615 mila dollari dall’ambasciata del Qatar per un programma descritto come “protezione delle persone”. Sei università americane hanno oggi anche i propri campus nella Education City di Doha: Georgetown, Carnegie Mellon, Virginia Commonwealth, Cornell, Northwestern e Texas A&M. La Qatar Foundation, gestita dallo stato, finanzia i campus e il personale. Non male, per un paese di appena due milioni di abitanti, di cui solo 300 mila qatarioti.
Il Qatar ha il nono fondo sovrano più grande del mondo e il fondo saudita è il sesto. Sono gli unici al mondo ad avere simili ricchezze con cui influenzare le università occidentali, dall’Italia al Canada, dove i qatarini hanno dato un milione alla McGill University. Il Qatar ha donato più di 103 milioni alla Virginia Commonwealth University per un campus di belle arti, 1,8 miliardi alla Cornell per una scuola di medicina, 700 milioni alla Texas A&M per un campus di ingegneria, 740 milioni alla Carnegie Mellon University per un campus di informatica, 760 milioni a Georgetown per una scuola di politica e 602 milioni alla Northwestern University per una scuola di giornalismo. Qatar e giornalismo?
Anche se il Qatar è allineato con Hamas e, in misura minore, con l’Iran, ospita anche la base aerea americana di Al Udeid. Uno degli obiettivi del soft power del Qatar è promuovere i Fratelli Musulmani, il movimento islamico che ha generato Hamas e il partito al potere in Turchia e che ora Emmanuel Macron vuole mettere sotto inchiesta in Francia. Insomma, gli emiri giocano su tutti i tavoli e su tutti i fronti.
Anche il denaro saudita, non meno ambiguo del Qatar, fluisce verso tutti i tipi di scuole americane: di élite come Mit, Harvard, Yale e Stanford; pubbliche come il Michigan e Berkeley, statali come la Eastern Washington University e la Ball State University.
Nel luglio 2020 Najat Al Saeed, ricercatrice degli Emirati Arabi, scrisse un articolo sul quotidiano Al Hurra intitolato “Il Qatar e il finanziamento delle università americane”. Vi descriveva la surreale alleanza tra la sinistra radicale e i Fratelli Musulmani, finanziata dal Qatar. Secondo la ricercatrice, un numero importante di professori e studenti affiliati all’alleanza e allineati ai suoi princìpi stava usurpando la libertà di pensiero nelle università.
Dopo il 7 ottobre, i canti a sostegno di Hamas sono stati la colonna sonora di tutte le proteste nei campus. Grazie al lavoro del Network Contagion Research Institute, ora abbiamo un quadro più chiaro delle forze in gioco. Duecento college e università americane hanno nascosto informazioni su tredici miliardi di dollari di contributi stranieri, molti dei quali da paesi islamici autoritari. Inoltre, sebbene la correlazione non sia causalità, il numero di incidenti antisemiti in un campus ha una relazione con il fatto che quell’università abbia ricevuto finanziamenti (divulgati e non) da regimi mediorientali. Secondo un nuovo rapporto, università della Ivy League, dalla Brown a Harvard, hanno accettato milioni di dollari in donazioni anche da fondazioni situate nello “Stato di Palestina”. Secondo Open the Books, le scuole d’élite hanno ricevuto dieci milioni di dollari dal 2017 al 2023 da enti dello “Stato di Palestina”.
Tra i beneficiari del Qatar ci sono anche università come la George Washington University, dove questa settimana è stato appeso uno striscione: “Lunga vita all’Intifada studentesca”. E Harvard, con 4,4 milioni di dollari. Trenta gruppi di Harvard hanno scritto di “ritenere il regime israeliano interamente responsabile di tutta la violenza in corso”. Il Qatar ha donato anche al Bard College, un piccolo college privato di New York. E alla Northwestern University, che ha ricevuto 647 milioni di dollari. Gli studenti del campus hanno distribuito un giornale che affermava falsamente che Israele aveva bombardato un ospedale.
I sauditi hanno donato 270 milioni a 144 università americane in un anno. Da sola, l’Università di Toledo ha ricevuto 23 milioni. La George Washington University, 19 milioni. Il Massachusetts Institute of Technology, 16 milioni. A Yale, l’Arabia Saudita ha donato dieci milioni per un “Centro di studi della sharia”. E i wahabiti hanno finanziato cattedre di islam a Harvard, Georgetown, Columbia, Rice University, Arkansas e Berkeley.
Poi c’è il Regno Unito. Persino l’Università dell’Ulster ha lanciato il suo campus a Doha. Il Qatar Development Fund ha donato tre milioni di sterline al fondo Thatcher dell’Università di Oxford, istituito in memoria del premier britannico. L’ex capo ufficio stampa di Thatcher, Bernard Ingham, ha detto che è “dannatamente scandaloso”.
Il Qatar ha donato al St Antony’s College di Oxford, dove insegnava Tariq Ramadan, undici milioni. Il Centro di studi islamici da 75 milioni di sterline di Oxford è stato sostenuto da dodici paesi musulmani, rivela il Financial Times, compresi i sauditi, senza contare il denaro da paesi come Brunei e Maldive, che non è solo creme solari ma anche sharia.
Una donazione di 8,4 milioni da una fondazione del Kuwait è solo una delle somme arrivate alla London School of Economics, dove già scoppiò uno scandalo per 1,5 milioni dalla Fondazione Gheddafi gestita dal figlio, Seif al Islam, che in cambio ha poi ricevuto un dottorato. Un principe saudita ha donato otto milioni a Cambridge per costruire il Centro di studi islamici Alwaleed Bin Talal; lo sceicco Sultan bin Muhammad al Qasimi, il sovrano di Sharjah, ha dato otto milioni all’Università di Exeter e il Qatar Development Fund tre milioni a Oxford.
Il Center for Social Cohesion ha pubblicato un dossier in cui sono elencate molte di queste donazioni: un milione a Oxford (casa reale saudita), un milione a Oxford (British Moroccan Society), 1,5 milioni a Oxford (Emirati Arabi), due milioni a Oxford (principe saudita Salman), venti milioni a Oxford (re saudita Fahd), 2,5 milioni a Oxford (Kuwait), quattro milioni a Oxford (Malesia), 1,25 milioni a Cambridge (Emirati), 2,8 milioni a Cambridge (Oman), otto milioni a Cambridge (principe saudita bin Talal), otto milioni all’Università di Edimburgo (principe saudita bin Talal), un milione alla Scuola di studi orientali di Londra (re saudita Fahd), nove milioni alla London School of Economics (Emirati), 5,7 milioni alla London School of Economics (Kuwait), 2,5 milioni alla London School of Economics (Turchia), 2,5 milioni all’Università di Durham (Sharjah), 2,4 milioni all’Università di Exeter (Sharjah), 1,8 milioni all’Università del Galles (Qatar).
Otto università britanniche da sole hanno ricevuto più di 233 milioni da regimi islamici. Il professor Anthony Glees ha studiato gli effetti, come in America, di questo finanziamento: il 70 per cento delle lezioni al St Antony’s College di Oxford, foraggiato dai regimi islamici, è "implacabilmente ostile" all’occidente e a Israele.
El Pais – il quotidiano spagnolo di sinistra – ha pubblicato un’inchiesta: “Mira Petrovic è una chimica spagnola e una delle scienziate più citate al mondo. E’ sbalordita dall’offerta di un’università saudita: 70 mila euro all’anno solo per elencare la King Saud University di Riad come affiliazione accademica. Petrovic avrebbe dovuto fare solo pochi viaggi di tre giorni in Arabia Saudita ogni anno. Ha rifiutato l’offerta, a differenza di dozzine di altri rispettabili accademici in tutto il mondo che elencano le università saudite come affiliazione”.
E in Italia? Dove non sono possibili le donazioni private, ci pensano gli accordi pubblici. La Sapienza ha 54 accordi con gli ayatollah iraniani. L’Università di Trieste ha più accordi con l’Iran (cinque) che con gran parte degli altri paesi. L’Università di Torino ha sedici accordi con l’Iran, il doppio di quelli con Israele. A Tor Vergata hanno stretto un accordo con il Qatar, come l’Orientale di Napoli. L’Università di Bologna ha due accordi con la Eastern Mediterranean University a Cipro Nord, sotto occupazione turca. Scade a giugno l’accordo fra l’Università di Genova e l’Università Islamica di Gaza, fondata da Hamas. In generale, le università italiane hanno 186 accordi con gli iraniani.
Gli ayatollah hanno di recente detto di aver lanciato una “guerra di attrito” per “distruggere la civiltà occidentale”. A giudicare da quello che succede nelle nostre università è una guerra che stanno vincendo, mentre lo stolto continua a guardare il dito (Israele) anziché la (mezza) luna.