La prossima crisi

L'aggressività cinese contro le Filippine rischia di aprire un altro fronte per l'America

Giulia Pompili

Il blocco navale alla secca di Scarborough e le operazioni alle isole Spratly, forse per costruire una nuova isola artificiale. Pechino non frena le sue rivendicazioni illegittime. E pubblica il testo di una telefonata con un viceammiraglio di Manila

In queste ore più di quattro navi della Guardia costiera  e circa 25 imbarcazioni della cosiddetta milizia marittima cinese, ormai soprannominata quella degli “omini blu” della Repubblica popolare cinese, sono in rotta verso la secca di Scarborough, un’area del Mar cinese meridionale amministrata dalle Filippine e rivendicata da Pechino. Secondo i media filippini, è la più grande operazione cinese nella zona, probabilmente volta a un blocco navale di accesso alla secca da parte delle navi di Manila, e non è ancora chiaro come la presidenza filippina di Ferdinand Marcos Jr. reagirà. La mossa cinese arriva al culmine di una settimana in cui la crisi  fra Cina e Filippine è arrivata a livelli preoccupanti. Un analista militare americano, sentito dal Foglio a condizione di anonimato, dice che al Pentagono si parla del Mar cinese meridionale – e non di Taiwan – come di una delle più probabili zone di conflitto diretto fra America e Cina.

 


Secondo la Guardia costiera cinese,  attorno alla secca di Scarborough avverrà “un’esercitazione di salvataggio” per i pescherecci cinesi, la prima di una serie che saranno effettuate con regolarità nella zona. Per diversi osservatori, però, si tratta di una tattica per consolidare la propria presenza nelle acque rivendicate.  Per l’America, impegnata già in due conflitti contemporaneamente, la crisi nella regione del Mar cinese meridionale non è di poco conto: con Manila Washington ha un trattato di Difesa molto chiaro, a differenza di quello con Taipei che si regge su basi di “ambiguità strategica”. E  se negli ultimi anni la Cina aveva mostrato le sue  rivendicazioni nel Mar cinese meridionale con azioni assertive,  di recente si è trasformata in aggressività attiva, soprattutto da quando a Manila è arrivato il presidente Marcos, quasi due anni fa. 

 


Lo scontro diretto non è a vantaggio di nessuna delle parti, dice al Foglio la fonte, ma quando la tensione si alza così tanto “la variabile di un errore di calcolo aumenta”.  La strategia cinese per prendersi l’intero passaggio marittimo va avanti da quasi dieci anni: è questo il tempo in cui Pechino è riuscita a convincere l’opinione pubblica, soprattutto interna, che quasi l’intero Mar cinese meridionale, dove passa un terzo del commercio marittimo globale, è parte del territorio amministrato da Pechino e in alcune aree ingiustamente sottratto dalle Filippine. Nel 2016 una sentenza di una corte arbitrale internazionale, nominata dall’Aia, ha ritenuto illegittime le rivendicazioni cinesi, ma Pechino ha ignorato la sentenza. Nel frattempo ha militarizzato l’area, e oggi usa sempre  più  tattiche intimidatorie e fluidi blocchi navali eseguiti dalla sua  milizia marittima – imbarcazioni ufficialmente civili usate dalle Forze armate. La crisi maggiore riguarda la zona delle isole Spratly, dove nel mese di marzo per due volte la Guardia costiera cinese ha attaccato con cannoni d’acqua e speronamenti delle navi di rifornimento filippine che si dirigono verso il vecchio relitto della Brp Sierra Madre, una nave cisterna da sbarco ormai in disuso,  dove Manila da anni ha un presidio di militari che serve a evitare la completa occupazione   e delle secche  delle isole da parte della Cina. Di recente, sembra che le milizie marittime di Pechino si stiano avvicinando sempre più spesso anche alla secca di Escoda, sempre nell’area delle isole Spratly e molto vicina all’isola filippina di Palawan, dove secondo la Guardia costiera filippina Pechino starebbe tentando di costruire un’altra isola artificiale. Ma il confronto non riguarda solo direttamente le Filippine. Tre giorni fa il cacciatorpediniere americano Uss Halsey, che stava eseguendo “operazioni di libertà di navigazione”, è stato intercettato dalla Marina cinese in un’area più a nord ovest rispetto alle Spratly, nelle isole Paracelso, in acque ufficialmente internazionali. Le Forze armate cinesi hanno monitorato la nave americana  e hanno lanciato diversi avvertimenti per allontanarla, e poi hanno protestato: “Le azioni degli Stati Uniti violano gravemente la sovranità e la sicurezza della Cina”, ha fatto sapere un portavoce della Marina di Pechino.

 


La crisi, per ora solo di posizione, arriva dopo che la Cina nei giorni scorsi ha minacciato di rendere pubblica una telefonata che sarebbe avvenuta a gennaio scorso tra un suo funzionario del ministero degli Esteri e un alto funzionario militare filippino, il viceammiraglio Alberto Carlos, nel quale i due paesi si sarebbero messi d’accordo per “un nuovo modello di gestione” dell’area delle isole Spratly, la cui trascrizione sarebbe stata diffusa con alcuni media. Manila prima ha accusato Pechino di diffondere fake news, poi il consigliere per la Sicurezza nazionale delle Filippine, Eduardo Año, ha chiesto l’espulsione dei diplomatici cinesi per aver diffuso una conversazione protetta e privata. Nei mesi precedenti, la Cina aveva continuato a rilanciare con Manila un presunto “accordo segreto” stipulato dal governo filippino durante l’amministrazione precedente, quella dell’ex presidente Rodrigo Duterte, e che il presidente Marcos non ha nessuna intenzione di sottoscrivere.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.