dissidenti nel mirino

Il trattato di estradizione fra Italia e Cina è ormai carta straccia, ma nessuno vuole dirlo

Giulia Pompili

Un altro cittadino cinese arrestato in Italia e non estradato sulla base delle criticità del sistema di diritto cinese.  La politica lascia i tribunali di volta in volta a gestire le richieste, ed evita di dirlo con chiarezza. Pechino fa la sua "caccia alla volpe" anche fuori dalle aule giudiziarie

Un altro “red notice” dell’Interpol contro un cittadino cinese, poi fermato in Italia. Un altro processo che finisce con il diniego dell’estradizione da parte dei giudici italiani, che rende ormai di fatto inutile il trattato di estradizione Italia-Cina del 2010 e ratificato dal Parlamento nel 2015. In poco più di un anno, infatti, sono almeno cinque i casi finiti in un nulla di fatto per la Repubblica popolare cinese, che secondo diverse organizzazioni non governative e osservatori fa un uso piuttosto disinvolto dei “red notice” dell’Interpol, accusando quasi sempre di crimini finanziari anche dissidenti e ricercati per motivi politici. 

 

A mettere fine all’ultimo caso che ha riguardato l’Italia è stata, per un puro caso ancora una volta, la Corte d’Appello di Ancona venerdì scorso: il cittadino cinese Y., ingegnere ai vertici di un gruppo di costruzioni, si trovava in vacanza a Numana, vicino Ancona, quando è stato arrestato dalle autorità italiane il 21 marzo scorso a seguito della segnalazione del suo nome sulla lista dei ricercati dell’Interpol – vale la pena ricordare che per la polizia internazionale di Lione, un paese membro può emettere una “notifica rossa” nei confronti di un individuo senza dover argomentare le sue accuse.  Probabilmente è stato l’hotel in cui alloggiava Y. a dare comunicazione alle autorità della sua presenza sul territorio italiano. Y. era già in Europa quando le autorità della città di Changchun lo avevano accusato di aver raccolto illecitamente l’equivalente di 400 milioni di euro, e avevano provato a estradarlo dalla Germania, ricevendo come risposta un anomalo “è fuori discussione” dalle autorità tedesche due anni fa, perché non c’era garanzia di un giusto ed equo processo in Cina e per il sospetto di violazioni dei diritti umani del sistema carcerario. Poi il tentativo in Italia, il fermo e l’arresto in carcere formalizzato dal giudice di Ancona. Prima di arrivare al rigetto della richiesta cinese da parte della Corte di Appello di Ancona, però, Y. si è fatto quasi sessanta giorni di carcere. 
Eppure il risultato era prevedibile: a marzo dello scorso anno la sesta sezione della Corte di Cassazione aveva deciso che una cittadina cinese in Italia, ricercata dall’Interpol sempre per reati finanziari e di cui era stata richiesta l’estradizione in Cina, non sarebbe stata estradata. Le motivazioni della Suprema Corte erano state piuttosto chiare.

 

I pattugliamenti congiunti fra polizia italiana e cinese a Roma nel 2019 (ansa)

 

La Cassazione aveva ripreso in gran parte la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, cioè la principale istituzione di difesa dei diritti umani del Consiglio d’Europa, che alla fine del 2022 nel caso “Liu v. Poland” aveva deciso che l’estradizione verso la Repubblica popolare cinese era in violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, quella che proibisce i trattamenti “inumani o degradanti”. 
Ma il caso di Y. non è isolato. A ottobre dello scorso anno il cittadino cinese Siu Yee Lam, attivista per l’autonomia di Hong Kong, arrestato un mese prima in Italia su richiesta dell’Interpol, è stato rilasciato: le autorità cinesi avrebbero rinunciato a richiedere l’estradizione entro i termini previsti perché sapevano che probabilmente sarebbe stata negata ancora una volta. E ci sono altri casi, di cui il Foglio non può scrivere perché i procedimenti sono ancora in corso, che probabilmente finiranno con lo stesso risultato. Enrico Di Fiorino, avvocato di Y. che aveva seguito anche il caso della donna cinese che ha fatto scuola, spiega al Foglio: “Siamo di fronte a una scelta pilatesca. Perché formalmente abbiamo un trattato d’estradizione con la Cina, però ogni volta gli diciamo di no. E per fingere di avere ancora rapporti formali con paesi diversamente democratici, teniamo ingiustamente in carcere delle persone, anche per periodi significativi. Questo ha un enorme costo, morale ma anche economico per noi, perché queste persone ovviamente andranno risarcite per la detenzione ingiusta”. 

 


A livello politico nessuno ha intenzione di mettere in discussione il trattato con Pechino ratificato nel 2015, lasciando i tribunali di volta in volta a gestire – spesso senza l’opportuna dimestichezza con la materia – le richieste di estradizione dalla Cina. Il fatto è che non tutto si svolge dentro un’aula di tribunale, con le garanzie dello stato di diritto: molto spesso i cittadini colpiti da “red notice” per ragioni politiche sono molestati e tormentati da altri cittadini cinesi mandati a convincerli a tornare in patria. L’altro ieri la Abc australiana ha pubblicato una lunga indagine svelando, tramite la voce di una ex spia cinese, i meccanismi interni della famigerata unità di polizia segreta e i metodi con cui dà la caccia ai dissidenti che vivono all’estero. Pensare che certi metodi siano confinati a paesi lontani, e non siano attuati anche in Italia, è pura ingenuità.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.