Vietato cantare. Dove la musica fa paura più di ogni altra cosa

Priscilla Ruggiero

In Cina, Russia, Iran, le canzoni sono considerate al pari delle armi e vengono censurate. Gli inni alla libertà vietati dai tribunali e quelli cancellati sui social media

Non abbiamo bisogno del controllo del pensiero”, canta un gruppo di bambini di una scuola di musica in una strada di Leshan, in Cina, intonando la canzone “Another Brick in the Wall” dei Pink Floyd.  Decine di persone filmano e assistono allo spettacolo, che include una rappresentazione teatrale con tanto di magliette nere coordinate con su la scritta “let’s music”, facciamo musica. Uno di questi filmati è stato caricato sui social cinesi, risale ai primi di maggio, durante la Festa dei lavoratori, e per settimane è rimasto indisturbato sulle principali piattaforme come DouYin – la versione cinese di TikTok – e Bilibili. Ma quando il video ha iniziato a circolare sui social “stranieri” come X, lo spettacolo “ribelle” è stato immediatamente censurato, rimosso dalle piattaforme cinesi come se non fosse mai esistito.

 

 

Le canzoni che violano le linee rosse del Partito comunista cinese sono considerate tra i maggiori pericoli per la stabilità di Pechino, che fa di tutto per nasconderle e bloccarle prima che possano creare  clamore e interesse pubblico. Come è successo per la canzone “Glory to Hong Kong”, la prima censurata a Hong Kong dopo essere diventata l’inno delle proteste antigovernative e pro democrazia. “Liberare Hong Kong, la rivoluzione dei nostri tempi”, per gli hongkonghesi è un inno alla libertà, per Pechino una canzone secessionista, già fuori legge dal 2020,  vietata da un tribunale di appello di Hong Kong la scorsa settimana e censurata mercoledì anche da YouTube. La piattaforma, “delusa” dalla decisione, ha di fatto  rispettato la censura di Pechino.

 

Non sono solo i testi a essere considerati pericolosi, ma anche le melodie, il pubblico, i movimenti che la musica porta con sé e produce. Il rock, il punk, la musica elettronica, l’hip-hop, il rap, sono generi divenuti popolari nel corso degli anni nelle principali città cinesi e quindi tenuti sotto controllo dai regolatori, attraverso una seconda rivoluzione culturale nel campo della musica. Dopo il divieto dei tatuaggi per gli artisti nel 2018, dei contenuti “illegali” nei karaoke nel 2021 e del popolarissimo programma “The rap of China”, oggi la scena musicale cinese continua a sopravvivere underground, cambiando sempre locali che chiudono e riaprono nella capitale, trovando nuovi metodi di scrivere testi evitando la censura e i contenuti contrari al Partito comunista. Oggi la scena rock più viva di tutto il paese non è più nella capitale ma  a Chengdu, la città dei panda nella regione del Sichuan, ma con l’uso dei social  è ancora più difficile la clandestinità della musica, e sono ancora moltissimi gli artisti imprigionati, messi a tacere o costretti all’esilio.

 

La stessa tendenza si registra in Russia,   dove negli ultimi anni sempre più cantanti hanno dovuto cancellare i loro spettacoli e scappare dal paese dopo le affermazioni pacifiste e contro la guerra in Ucraina. Anche Vladimir Putin, dopo la crescente popolarità della musica rap, l’ha definita “il degrado della nazione”, ha fatto una legge ad hoc  e censurato la maggior parte degli artisti rap, in un ritorno contemporaneo del periodo sovietico.

 

Nell’ultimo report di Freemuse, una ong con sede in Danimarca il cui scopo è difendere i diritti dei musicisti nel mondo, i paesi in cui si sono registrate maggiori violazioni della libertà di espressione ed episodi di censura sono Cina, Cuba, Egitto, Iran, Myanmar, Russia, oltre a  Thailandia e Turchia. In Iran lo stato della libertà artistica è peggiorato ulteriormente dopo le proteste per la morte di Mahsa Amini, anche se la musica è vietata  nel paese  sin dalla rivoluzione iraniana del 1979, e   il prezzo per i musicisti ribelli arriva alla pena di morte. Come  Toomaj, condannato  per “corruzione sulla terra” da un tribunale rivoluzionario, o Mehdi Rajabian, incarcerato tre volte nell’arco di dieci anni e che ha più volte detto: la musica è un’arma che rende liberi. 

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