Il rapporto del 2021 sull’accettazione Lgbt di Berkeley ha classificato Israele al 44esimo posto su 175 paesi, mentre la Palestina è 130esima (foto Getty) 

I “Queer for Gaza”, truffa inclusiva

Giulio Meotti

Non sono un mistero buffo. È la follia dei nostri paladini della diversità: la vita è bella e l’amore vince sempre

“A Gaza c’è un notevole movimento queer”, assicura la filosofa dai pronomi plurali, Judith Butler, di fronte agli studenti dell’Alma Mater di Bologna e di altri atenei italiani, dove anziché “se sei felice e lo sai batti le mani” cantano “Dal fiume al mare, Palestina libera”. D’altronde, a Cannes quest’anno non ci sono film israeliani in concorso (troppo complicato), ma in compenso c’è “La belle de Gaza” della francese Yolande Zauberman, film su un transessuale vicino di casa di Yahiya Sinwar. E mentre la scrittrice che su La7 tiene sermoni sul gender rinunciava allo spazio di presentazione del suo libro al Salotto di Torino per cederlo a un gruppo di attivisti “Per Gaza”, un manipolo di coraggiosi “Queers for Palestine” bloccavano l’ingresso di Disney World in Florida. I principali sponsor del Copenhagen Pride si ritiravano invece dall’evento dopo che la manifestazione Lgbt ha chiesto alle aziende di scegliere “da che parte stare nel conflitto israelo-palestinese”. Maersk, Dansk Industries e Google hanno deciso di ritirare la loro sponsorizzazione. E non importa che il rapporto del 2021 sull’accettazione Lgbt di Berkeley abbia classificato Israele al 44esimo posto su 175 paesi, mentre la “Palestina” è 130esima, dietro Russia, Arabia Saudita e Congo. Allo stesso modo, l’Università di Georgetown ha collocato la Palestina al 160esimo posto su 170 paesi nell’indice di sicurezza delle donne. 

 
Si legge dall’ultimo Spectator: “Gli studenti di Oxford, come altri, protestano per la Palestina. ‘Benvenuti all’Università Popolare per la Palestina’, recita un cartello. Poco più della metà sono donne. Molte tende hanno bandiere Lgbt; c’è un cartello che dice: ‘I queer sostengono la Palestina’”. A ogni manifestazione occidentale per Gaza ci sono bandiere arcobaleno. “Forse non sei convinto” scrive Abe Greenwald su Commentary. “Forse sei propenso a concordare con l’ex ambasciatore americano in Russia Michael McFaul, che a maggio ha twittato: ‘Hamas non ha nulla in comune con i valori liberal o progressisti’. Se pensate che abbia ragione, guardate più da vicino coloro che protestano in sintonia con Hamas. Troverai tutti i colori nell’arcobaleno dell’identità. Black Lives Matter, i gruppi Lgbtq, le organizzazioni femministe intersezionali e altri che salutano il 7 ottobre come resistenza e condannano la risposta israeliana come genocidio”. 

  

Era davvero queer Murkhiyeh, il gay decapitato a Hebron, e il comandante di Hamas torturato per giorni dagli sgherri di Sinwar 

 
Ahmad Abu Murkhiyeh era un gay palestinese che aveva vissuto per due anni in Israele come richiedente asilo quando venne sequestrato e riportato a Hebron, sotto Autorità Palestinese, dove è stato decapitato e il suo corpo senza testa gettato sul ciglio della strada, mentre immagini del cadavere smembrato venivano diffuse sui social network palestinesi. Il più brillante scrittore palestinese, Abbad Yahiya, si è visto requisire le copie del  romanzo “Crimine a Ramallah” in tutta la Cisgiordania. L’ordine è arrivato dal procuratore palestinese, per il quale il libro è “indecente” e “incompatibile con la morale”. L’editore è stato arrestato. Uno spaccato della società palestinese clandestina, dall’omosessuale al consumatore di alcolici. 

   
Era davvero queer anche Mahmoud Ishtiwi, il comandante del battaglione Zeitoun di Hamas a Gaza, uno dei più importanti dell’organizzazione. Era sposato, faceva parte di una famiglia con legami solidi con la leadership del gruppo, aveva trentatré anni quando venne accusato di essere omosessuale e di avere una relazione con il vicino di casa. Ishtiwi è stato torturato e condannato a morte.  Sinwar in persona diede l’ordine tramite il fratello. I documenti sui suoi interrogatori e le lettere che spediva alla sua famiglia sono appena state trovate all’interno di un tunnel nella città di Khan Younis, nel sud di Gaza, e resi note da Haaretz. “Questa è la tua tomba, sarai coperto di cemento fino alla bocca”, gli dissero. “Mi hanno frustato quattrocento, cinquecento volte, il mio corpo ha assunto colori diversi, le frustate sono durate più di quattro ore di fila, ho perso conoscenza” aveva scritto il comandante queer. Racconta che i  torturatori lo hanno appeso in aria. Forse sperava nella solidarietà del filosofo italiano queer del “pensiero debole”, che invece diceva: “Compriamo armi ai palestinesi”. 

 
Strani i woke. In Inghilterra, seicento organizzazioni Lgbt hanno firmato un appello di “solidarietà con la Palestina”. Non per la liberazione di Gaza dai predoni della Sharia. No, solo contro Israele. In Francia, settanta organizzazioni Lgbt lanciano un altro appello per la “liberazione della Palestina”. Tra i nomi anche Planning familial. “Anche gli uomini possono essere incinti”. Questa la campagna di Planning nelle scuole e che mostra una coppia transgender barbuta che “aspetta” un figlio. In effetti a Gaza ci sono molti uomini barbuti, ma pochi uomini incinti. “Perché ci sono così tanti ‘queer per la Palestina’, ma assolutamente nessun ‘queer in Palestina’?'”, ha risposto Israele tramite i social. “Non vediamo l’ora di vedere Hamas issare l’arcobaleno su  Gaza come ringraziamento per la vostra solidarietà”.

   

All’università per stranieri di Siena hanno annunciato la festa di Ramadan con un convegno su Michela Murgia e la queerness

   
Che mondo meraviglioso! All’università per stranieri di Siena, il Magnifico Rettore Tomaso Montanari ha deciso di sospendere le lezioni in occasione della festa di Ramadan. Ma l’aspetto più interessante della vicenda è che nell’annuncio pubblico dell’iniziativa Montanari si vanta del concomitante convegno sulla società queer di Michela Murgia. “Una coincidenza felice”, scrive Montanari, “la queerness è la scelta di abitare sulla soglia delle identità, accettando di esprimere di volta in volta quella che si desidera”. 
All’ultima cerimonia  dell’Orso d’Oro a Berlino, uno dopo l’altro i protagonisti, agghindati con  kefiah e  strass transgender, hanno espresso il loro disprezzo per Israele. Intanto un’organizzazione tedesca Lgbt erigeva un modello della Kaaba, l’edificio più sacro alla Mecca, con i colori arcobaleno, a Kassel. Voleva diffondere “tolleranza e amore senza tabù”. Forse una parodia dello slogan ironico dell’Isis, “Love wins”. C’è talmente tanto amore che il Soura Film Festival di Berlino, dedicato al cinema Lgbt, aveva in programma un documentario sulla moschea Ibn Rushd-Goethe. Ma la fondatrice, la turca Seyran Ates, che vive sotto scorta, è accusata di “islamofobia” e gli organizzatori annullano la conferenza sull’unica moschea in Europa che accoglie gli Lgbt. 

 
In un’opera esposta nel padiglione della Spagna all’ultima Biennale, l’artista Sandra Gamarra paragonava intanto il trattamento della Palestina alla discriminazione transgender. “Transbody sta all’eterosessualità normativa come la Palestina sta all’occidente: una colonia la cui estensione e forma si perpetuano attraverso la violenza”, ha scritto Gamarra nell’opera.

 
Helena Dalli, la Commissaria europea all’Uguaglianza che aveva proposto di eliminare  “buon Natale” perché poco “inclusivo”, è sempre piena  di auguri di “buon Ramadan”. E così la Commissione Europea per la “Giornata contro l’omofobia” ha visto bene di fare pubblicità al velo islamico. Geniale.   L’inclusione è la grande fuffa del nostro tempo. 
E mentre il premier canadese Justin Trudeau, che ha inventato l’acronimo arcobaleno più lungo del mondo (2SLGBTQQIA+) ma non è in grado di dare una definizione biologica di “donna”, sfoggiava calzini arcobaleno con scritto “Eid Mubarak” per il Gay pride di Toronto, l’Università dell’Ontario scopriva che il gioco di prestigio non sempre viene bene. In occasione della “Giornata contro l’omofobia”, la homepage dell’università ha pubblicato un poster che promuove il “potere dell’amore”. Diverse coppie si baciavano: una coppia eterosessuale nera, una coppia omosessuale mista, una con un uomo in sedia a rotelle... e una coppia di donne velate. La comunità musulmana non l’ha presa bene e si è mobilitata per ottenerne il ritiro. L’ateneo ha prima preso le difese di questo manifesto, poi ha riconosciuto che l’immagine potrebbe “infastidire alcuni musulmani”, infine l’ha ritirata.

 
I pangloss iberici, che hanno portato “Zorra” (troia) all’Eurovision, che hanno un governo che si dice “femminista”, che ha metà dei ministri di donne, che ha lanciato lo sciopero dei giocattoli per impedire alle ragazze di chiedere bambole e ai ragazzi palloni per Natale (quanti stereotipi), che ha fatto la legge del “solo sì è sì” al grido “mai più stupri derubricati ad abusi” e che ha promosso persino una app per “misurare” come sono distribuite le faccende domestiche in ciascuna famiglia e combattere il “sessismo”, è il più antisraeliano d’Europa. Lotta al patriarcato, ma non contro tutti i patriarcati. D’altronde, l’ex ministra per l’Uguaglianza  Irene Montero ha detto che “tutte le culture e le religioni” hanno modi “di opprimere le donne”  e che “succede in Afghanistan, ma anche in Spagna”. Trionfo di tutti i relativismi. 
Il capo degli studenti della Columbia si dichiarava intanto transgender, anche se vorrebbe “uccidere i sionisti”.  E mentre a Stanford alcuni studenti si acconciavano con i passamontagna di Hamas, nelle stesse ore in una scuola del Massachusetts una drag queen invitava i bambini a scandire “Free Palestine”.

   

Quando i talebani ripresero Kabul, la modella femminista Lily Cole si fece fotografare con il burqa per “celebrare la diversità”

   
Quando i Talebani ripresero Kabul, la modella, femminista, influencer e attrice britannica Lily Cole si fece fotografare con il burqa per “celebrare la diversità a tutti i livelli: biodiversità, diversità culturale, diversità di idee”. Quanta “diversità”.

 
Perché ora viviamo tutti nel mondo impazzito della filosofa di Berkeley che si fa chiamare “they” ma non sa distinguere una democrazia che conta le teste da una teocrazia di sabbia che le taglia, delle fatine arcobaleno di Netflix, dei bagni neutri, di Omero transgender alla Normale di Pisa, del transbody della Biennale, delle mezzelune di Ramadan appese nelle città e delle facoltà di scienze sociali che censurano “Alice nel Paese delle Meraviglie”.

 
Ma per trentacinque euro su Etsy puoi sempre comprare la maglia “Gay for Gaza”. E comunque Eurovision, dove Eden Golan doveva muoversi con cento poliziotti di scorta per evitare che le facessero fare la fine di Shani Louk al Nova festival, lo ha vinto un “cantante non binario”. La vita è bella!  

 
Che fare, allora? E’ vero che un gruppo di polizia gay si è rifiutato di prende parte a una parata arcobaleno a Parigi che doveva iniziare a Seine-Saint-Denis per timori riguardanti la sicurezza e che un parlamentare fiammingo gay, Gilles Verstraeten, ha confessato senza che venisse ripreso da alcun giornale italiano di non “osare più camminare mano nella mano con un uomo a Molenbeek (comune di Bruxelles)”. 

   

Il prossimo Gay Pride va celebrato a Gaza: si doneranno occhiali per la realtà virtuale per immedesimarsi nella vita di un gay sotto Hamas

   
Ma il prossimo Gay Pride va celebrato a Gaza: alle donne faranno indossare un hijab che copre la testa e il volto, tranne gli occhi; organizzeranno un incontro con le donne di Hamas all’insegna della “sorellanza” e contro la “cultura dello stupro”; allestiranno televisori in tutti i tunnel per trasmettere in diretta i dibattiti del Parlamento di Teheran; costruiranno laboratori (“Alla scoperta dell’altro”) dove gli studenti potranno indossare occhiali per la realtà virtuale e simulare così la vita di un omosessuale in Iran e a Gaza; da Palazzo Marino si esporterà il “Progetto Aisha”, la sposa bambina di Maometto, mentre dall’Università di Torino si organizzeranno “corsi di empatia” per curare la “mascolinità tossica” dei comandanti della Brigata al Qassam, anche se nessuno li può giudicare, “non siamo islamofobi”, e poi, come disse un nostro vignettista sguaiato al tempo della notte di Colonia, “le nostre donne ce le stupriamo noi”. E già che ci sono, non sarebbe male introdurre il “congedo mestruale” e la “surrogata altruista”.
In ogni caso, restiamo umani. Dopo il verde natura, una tonalità di verde coranico alla bandiera arcobaleno.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.