l'analisi
Riad è di nuovo il perno per la stabilità del medio oriente. Come prima del 1973
I sauditi di Mohammed bin Salman non avranno esattamente le carte in regola, ma rispetto a tutti gli altri attori regionali hanno in mano le carte migliori per diventare i partner di riferimento degli Stati Uniti
Come molti osservatori e conoscitori della realtà iraniana hanno affermato tra ieri e oggi, la morte improvvisa e accidentale del presidente della Repubblica iraniana non cambia niente né nelle dinamiche interne del potere del paese né a livello regionale o globale. Le leve di comando sono e restano nelle mani della Guida suprema e in quelle dei vertici dei pasdaran. La relazione sempre più stretta con Mosca, intrecciata nel comune sostegno al regime criminale del siriano Assad e poi consolidata nel sostegno militare e tecnologico (sic) garantito dall’Iran alla guerra di aggressione di Vladimir Putin contro l’Ucraina, rimane solida. E non a caso la Russia è stato il primo paese a presentare le pubbliche condoglianze per la morte del presidente.
Negli anni, Teheran ha anche rafforzato la sua relazione con Pechino, diventando un fornitore rilevante di gas e ottenendo assistenza tecnologica, e soprattutto consentendo a Xi Jinping di capitalizzare sul clamoroso errore strategico dell’Amministrazione Trump: la denuncia unilaterale degli accordi sul nucleare iraniano (Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa), ai quali Teheran stava fino a quel momento ottemperando lealmente. Paradossalmente, proprio la rottura del Jcpoa aveva consentito agli ayatollah (e ai pasdaran) di rompere un isolamento pluridecennale, inserendosi progressivamente nelle istituzioni multilaterali ad architettura sino-centrica, come l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco, nella quale l’Iran è stato ammesso nel 2022) e il gruppo dei Brics (ingresso il 1° gennaio di quest’anno).
Successi diplomatici importanti questi ottenuti da parte iraniana, dunque, che però evidentemente cementavano la collocazione antiamericana del paese e che ne accentuavano la spinta a sfidare il (declinante) ordine regionale a guida americana. Proprio allo scopo di rivitalizzarlo, Washington si era mossa in una duplice direzione, sinergica nella testa dell’Amministrazione Trump: a) mantenere e rinforzare il sostegno a Israele, anche con mosse irrituali e non necessarie, come l’annuncio della decisione di spostare anche formalmente le proprie rappresentanze diplomatiche da Tel Aviv (capitale internazionalmente riconosciuta dello stato ebraico) a Gerusalemme; b) favorire attivamente l’integrazione di Israele nella regione del Golfo, attraverso gli Accordi di Abramo ai quali in un futuro ravvicinato avrebbe dovuto unirsi anche l’Arabia Saudita.
Il pogrom sanguinario del 7 ottobre e la reazione spropositata da parte del governo di Benjamin Netanyahu hanno messo in crisi questa strategia, o quantomeno costringono la Casa Bianca a rivedere la strategia di lungo periodo, che oggi vede uno stato ostile (l’Iran) e uno stato cliente ribelle (Israele) contribuire alla destabilizzazione dell’area o, se si preferisce, rappresentare un vincolo negativo rispetto alla medesima stabilizzazione. Aspettarsi favori dagli amici sarebbe stato da stolti, evidentemente. Ma attendersi almeno una moderata cooperazione da parte del paese che, dai tempi di Nixon e Kissinger e in maniera via via crescente, riceve trasferimenti a fondo perduto in termini militari, tecnologici e finanziari da parte di Washington sarebbe stato decisamente più ragionevole. Non in una logica di “pupazzo e puparo” – che in politica internazionale non funziona mai in termini così semplificati – ma per non dover spiegare al contribuente americano che finanzia questa enormità di trasferimenti in che misura questi contribuiscono alla sicurezza degli Stati Uniti e alla stabilità mediorientale. Non stiamo quindi parlando né solo né prevalentemente degli studenti “ricchi e viziati” dei campus della Ivy League.
E’ in questa temperie che il ruolo (possibile) dell’Arabia Saudita si rafforza. A fronte del disastro che la guerra di Gaza sta producendo (alla popolazione civile, alle prospettive di una convivenza comunque organizzata tra ebrei, musulmani e cristiani in Israele e nella Palestina occupata, alla qualità della democrazia israeliana e alla credibilità dell’occidente in una fase decisiva per la lotta nella difesa delle democrazie sotto assedio), gli Stati Uniti devono cercare un partner diverso per provare a fornire stabilità alla regione. E i sauditi di Mohammed bin Salman, se non proprio le carte in regola, hanno però le carte migliori in mano tra tutti gli altri attori regionali. Non sto alludendo a un disimpegno totale e radicale nei confronti di Israele (anche per evitare di fornire altre occasioni a Mosca di rinforzare la propria presenza nella regione: o ci siamo già scordati della relazione più che cordiale tra Bibi e Vladimir e della nulla assistenza e solidarietà prestata da Israele all’Ucraina?). Ma credo che si prospetti una lenta ma inevitabile normalizzazione dei rapporti degli Stati Uniti con Israele (che non verrà arrestata neppure nella deprecabile ipotesi di una seconda presidenza Trump) e di un’ascesa nella relazione tra Washington e Riad. Non più considerati l’uno come un alfa e l’altro come un beta, ma entrambi come due beta: rilevanti, ma alle cui scelte, quando non condivise, non si è certo disposti a impiccarsi e tantomeno a lasciarsi impiccare.
Si tratta di un ritorno alla politica americana precedente al 1973, che prenderebbe atto delle trasformazioni nella regione e nel sistema internazionale nel suo complesso, della limitatezza relativa delle capacità materiali americane di giocare un ruolo diretto in ciascuna regione e della necessità crescente di recuperare in asset immateriali (reputazione e autorevolezza) questo oggettivo declino relativo di potere materiale, evitando di illudersi che esistano regioni e ragioni nelle quali e per le quali le scelte sbagliate non finiscano col produrre conseguenze negative globali.