Prove di accerchiamento
La “punizione” cinese contro la libertà di Taiwan
Per ora nessuno pensa a una guerra, ma la tattica da “zona grigia” di Pechino non smetterà. La Cina non intacca l’istinto democratico di Tawan, ci dice Vincent Chao (Dpp). I guai del presidente Lai
Solo tre giorni dopo la cerimonia d’insediamento del nuovo presidente taiwanese Lai Ching-te, ieri la Repubblica popolare cinese ha lanciato gigantesche esercitazioni militari attorno all’isola di Taiwan. Pechino le ha chiamate “Joint Li Chien-2024A”, ha detto che erano previste da tempo, ma nessuno ha avuto dubbi sul loro reale significato, esplicitato poi da Li Xi, portavoce del Comando del Teatro orientale delle Forze armate cinesi: una “forte punizione” contro quelle che Pechino definisce le “forze indipendentiste di Taiwan”, oltre che “un grave avvertimento contro interferenze e provocazioni di forze esterne”. La “punizione” cinese insomma riguarda il discorso inaugurale di Lai, e gli alleati e partner di Taiwan nel resto del mondo. Ieri il ministero della Difesa taiwanese ha detto di aver contato quasi trenta navi, fra Marina e Guardia costiera, e almeno 42 caccia attorno all’isola.
Anche dopo la visita a Taipei della speaker della Camera americana, Nancy Pelosi, Pechino aveva reagito con enormi esercitazioni militari a sorpresa, molto simili a quelle iniziate ieri, cercando di simulare un blocco navale attorno all’isola di Taiwan che rivendica come proprio territorio, anche se il Partito comunista cinese non l’ha mai governata. Da allora, le tattiche da “zona grigia” della Cina si sono intensificate: “La frequenza e la portata delle esercitazioni militari della Cina contro Taiwan sono aumentate negli ultimi anni”, spiega al Foglio Vincent Chao, che è stato consigliere per la Politica estera del presidente Lai e responsabile degli Affari internazionali del Partito democratico progressista al governo. “Il loro scopo è minare la governance democratica di Taiwan e punire le elezioni democratiche di Taiwan”. Secondo Chao, anche se questa potrebbe sembrare una “nuova normalità”, la verità è che Pechino “non ci sta riuscendo. Al contrario, vediamo che il popolo taiwanese è più attaccato che mai ai nostri valori democratici e al nostro stile di vita”. E lo ha ribadito, ieri, Lai visitando una base della Marina militare per la prima volta come comandante in capo: “Nonostante le sfide e le minacce esterne, continueremo a difendere i valori della libertà e della democrazia”. Anche se certe tattiche cinesi non hanno successo a Taiwan, “purtroppo, sembra che la Cina non abbia la capacità di impegnarsi in grandi cambiamenti politici”, dice Chao.
Come sempre, ci sono due modi di guardare alle notizie che arrivano dallo Stretto dell’Asia orientale. Perché da un lato c’è la vita quotidiana in Taiwan, che va avanti normalmente nonostante le minacce cinesi, e il suo sistema democratico a cui ormai – lo dicono tutti i sondaggi – nessun taiwanese rinuncerebbe. Dall’altro c’è la tensione, la visione degli equilibri internazionali, e la diretta conseguenza di quella che potenzialmente, come ha scritto il Financial Times domenica scorsa, rischia di essere “la più grande crisi internazionale sin dalla fine della Seconda guerra mondiale”.
Lai è un personaggio odiatissimo a Pechino, colpevole di definirsi, un tempo, un “lavoratore pragmatico per l’indipendenza di Taiwan”. E le sfide gli arrivano anche dal suo stesso sistema democratico: nei suoi primissimi giorni di presidenza, ha dovuto affrontare il caos nello Yuan legislativo, il Parlamento di Taiwan dove il suo Partito progressista democratico non ha la maggioranza, e una manifestazione da trentamila persone nel centro di Taipei. I gruppi civici, quasi tutti vicini al movimento dei Girasoli che dieci anni fa cambiò radicalmente la politica taiwanese, hanno protestato martedì sera circondando il Parlamento per ore, seduti per terra, contro un disegno di legge proposto dal partito di opposizione, il Kuomintang, che garantirebbe ai parlamentari più poteri, dandogli la libertà di convocare per fare domande e indagini anche su materie coperte da segreto di stato pressoché chiunque, dai cittadini al presidente stesso. In molti temono che questa norma possa essere utilizzata dai partiti di opposizione per mettere fuori gioco gli avversari politici. In questi mesi il Kuomintang ha lavorato molto per ergersi come forza politica di dialogo nei confronti di Pechino, che non chiede l’annessione ma un rapporto più vicino alla Repubblica popolare che all’America. Più di qualcuno potrebbe fidarsi di loro e non di chi sbatte in faccia tutti i giorni a Pechino la sua libertà.