attimi di terrore
Non si ferma la violenza imperterrita di Hamas
La tragedia di Naama Levy e della ong israeliana che lavorava per la pace
Era la “ragazza della jeep”. Le manette ai polsi dietro le schiena, il cavallo dei pantaloni della tuta insanguinato, le ferite alle caviglie, i piedi nudi. È il momento in cui, il 7 ottobre, la diciannovenne israeliana Naama Levy veniva rapita da Hamas. L’ultima volta era stata vista così nel filmato che aveva fatto il giro del mondo, mentre i terroristi urlando “Allahu Akbar” l’afferravano per i capelli e la trascinavano dentro la jeep, per scomparire in un tunnel. Ieri Naama è “tornata” in un video che risale a poche ore prima che finisse sulla jeep, rapita nella base di Nahal Oz, assaltata da Hamas la mattina del Sabato Nero. “Ho degli amici in Palestina”. Queste le parole pronunciate da Naama ai terroristi di Hamas, mentre il suo volto è coperto di sangue. Naama Levy avrebbe dovuto incarnare quanto di meglio c’è nella società israeliana, la speranza per un futuro in cui israeliani e palestinesi avrebbero potuto coesistere pacificamente.
Non è andata così. Naama era una volontaria profondamente coinvolta in “Hands of Peace”, un’organizzazione americana impegnata a promuovere il dialogo e la comprensione reciproca tra i giovani su entrambe i versanti del conflitto. Fondata nel 2002 da tre donne nell’area di Chicago – una cristiana, una musulmana e un’ebrea – “Hands of Peace” ha riunito dozzine di adolescenti provenienti da Israele e dalla Cisgiordania per tre settimane di dialogo, in due campi separati nelle aree di Chicago e San Diego. Naama aveva partecipato a seminari, incontri e dialoghi. “Ponti, non muri”, era il loro spirito. Naama si batteva per i diritti dei palestinesi. Si batteva per la pace. Si batteva per i due stati.
Ma per il più strano scherzo del destino, le stesse persone per cui Naama si era battuta sono diventate i suoi aguzzini: non a causa di “Hands of Peace”, ma semplicemente perché Naama è ebrea, come la sua nonna sopravvissuta alla Shoah. Il 31 marzo, con Naama in un tunnel di Yahiya Sinwar, “Hands of Peace” ha chiuso dopo vent’anni di attività.
Naama è come i volontari di “Road to Recovery”, la ong israeliana che portava i malati di Gaza a curarsi in Israele. Hamas il 7 ottobre ha ucciso quattro volontari della generosa ong e altri due, Oded Lifschitz di 83 anni e Chaim Peri di 79 anni, sono tenuti in ostaggio a Gaza.
Ci sono voluti trentotto giorni per riconoscere il volto di Vivian Silver tra le macerie del kibbutz di Be’eri. Paladina e icona della pace, la canadese Vivian si era trasferita nel kibbutz vicino alla striscia di Gaza nel 1990, era la direttrice del Negev institute for strategies of peace and development, infiniti programmi per aiutare la gente di Gaza, fino alla fondazione del Centro arabo-ebraico per l’uguaglianza.
Un altro attivista pacifista, Hayim Katsman, è stato ucciso nella sua casa nel kibbutz Holit. Aveva completato il suo dottorato all'Università di Washington a Seattle e lavorato come coordinatore del gruppo di ricerca Israele-Palestina presso l’università. Il suo dottorato era intitolato “Nazionalismo religioso in Israele/Palestina”. Sono stati uccisi anche Bilha e Yakovi Inon, attivisti pacifisti e genitori di un importante attivista, Maoz Inon, nel loro kibbutz agricolo di Netiv Ha’Asara, appena a nord di Gaza.
Yocheved Lifschitz, una pacifista israeliana di 85 anni tenuta prigioniero da Hamas, ha affrontato Sinwar, il leader dell’organizzazione terroristica, durante una visita agli ostaggi in un tunnel, magari proprio quello condiviso con Naama. “Non ti vergogni di aver fatto questo a persone che hanno sempre lavorato per la pace con i palestinesi?”, ha detto la donna al capo di Hamas.
Ma a differenza di Naama, Hamas non ha amici in Israele, mentre sembra averne davvero molti in occidente. Compresi alcuni ministri europei che vogliono liberare la Palestina dal fiume al mare.