Il punto di vista
Che cosa farà l'Europa da grande: sfide e prospettive
Tra il sogno federalista di uno stato europeo e l’Unione come è oggi vi è una terza strada per farla diventare qualcosa di più forte. Per reggere alle scosse che si succedono dall’inizio del nuovo millennio, anche considerando i conflitti internazionali in corso
Londra e Mosca, due capitali decisive per e nella storia europea, non fanno oggi parte "dell'Europa" di cui amiamo parlare. Sarebbe quindi meglio discutere di Unione europea, l’inusuale modello di stato che stiamo provando a costruire, piuttosto che di una generica Europa, una precisazione necessaria soprattutto perché l’aggressione russa all’Ucraina e la risposta che le verrà data costituiscono un fattore decisivo nel determinare se e come questa Unione verrà o non verrà fatta. La precisazione ci aiuta cioè a vedere meglio il problema dell’evoluzione di una strana creatura che è difficile per i giuristi europei definire uno “stato” e che tale non doveva essere nelle intenzioni di gran parte dei suoi costruttori, a eccezione della minoranza federalista. Ma tra l’Unione odierna e il sogno federalista di uno stato europeo vi è il mare della storia, che ha nutrito e continua a nutrire pressoché infinite e diversissime forme statuali: se sarebbe irrealistico chiedere oggi alla nostra Unione di farsi compiutamente stato e perseguire questo obiettivo, essa può sicuramente diventare qualcosa che lo sia di più di quel che è, per reggere alle fortissime scosse che si succedono dall’inizio del nuovo millennio.
È questo il problema all’ordine del giorno, un problema la cui soluzione – che potrebbe anche non essere quella in cui spero – dipenderà in parte dagli eventi dei prossimi mesi. Lo affronto partendo per quanto possibile da quelli che sembrano essere dati di fatto e da quelli che è lecito, anche se con meno certezza, considerare tali. Il primo, innegabile, è che la guerra putiniana, l’ultima delle grandi scosse che siamo stati chiamati ad affrontare dopo la crisi del 2008 e il Covid, ha già causato, al di là delle centinaia di migliaia di morti, disastri che non possono essere sottovalutati.
Quello subìto dall’Ucraina è ovvio. Meno ovvio, ma altrettanto imponente è quello che Putin ha inflitto alla Russia, in parte nascosto e comunque attutito dalle gigantesche rendite di cui il paese gode grazie alle sue materie prime. Malgrado il flusso di valuta garantito dalle esportazioni di gas, petrolio, ecc. l’economia russa si sta trasformando in un’economia di guerra, com’era quella sovietica, anch’essa capace di reggere a lungo grazie alle stesse ricchezze. Come dimostrano le sue parole a proposito (“Nel 2024 la Russia spenderà l’8,7 per cento del Pil per difesa e sicurezza. Non è il 13 per cento dell’epoca sovietica, ma pur sempre tanta roba”) e le sue ultime nomine, il pericolo è avvertito dallo stesso Putin, che sta cercando di mettervi riparo. Egli può però fare ben poco, salvo nasconderlo, di fronte al pericolo ben più grave costituito dalla crescente dipendenza di Mosca da Pechino. La sola stazza di quest’ultima (l’economia e la popolazione cinesi sono di dieci volte più grandi di quelle russe) è infatti tale da garantire la nascita di un rapporto diseguale tra la Russia e una Cina che ricorda le umiliazioni e i conflitti del passato e ha enormi interessi in Asia e Siberia, vale a dire in territori russi, cosa che è invece impossibile dire dell’Unione europea a occidente.
Ma il disastro è reale anche per l’Unione europea e i suoi stati membri. Per capirlo basta pensare a quello che abbiamo perso e stiamo perdendo a seguito della rottura con un paese, la Russia, con cui la complementarità, e non solo quella economica, era, sarebbe, e speriamo tornerà a essere, fortissima. Questa perdita, che si somma a quella precedente e per fortuna molto meno traumatica di Londra, basta da sola a provocare un forte e brusco ridimensionamento del peso degli “europei” nel mondo, un dato di fatto che dovrebbe essere più che sufficiente a spingere l’Unione a riprendere appena possibile rapporti anche formali con il Regno Unito e in futuro qualche tipo di relazione anche con una nuova Russia.
Ma è fondamentale capire che potremmo perdere ben di più se non riusciremo a rispondere alla sfida di farci più stato innescata dall’aggressività putiniana. Da questa capacità dipende infatti non solo il futuro della prospettiva di “integrazione europea” ma anche la capacità europea di esistere nel mondo in maniera significativa e non come assieme di piccoli stati spenti e dispersi.
Sono fin qui dati di fatto. Molto dipende però anche dall’andamento della guerra, che è naturalmente imprevedibile. Sembra tuttavia possibile affermare che l’Ucraina, dopo aver vinto una guerra di liberazione nazionale, invece di prendere l’iniziativa politica ha commesso un errore di narrazione e strategia sostenendo una “controffensiva” certo comprensibile, ma irrealistica e quindi controproducente nonché generatrice di conseguenze negative. Malgrado ritardi drammatici nelle forniture di armi e altri problemi che rendono le prossime settimane probabilmente le più difficili, Kyiv sembra però ancora in grado di reggere e mantenere la guerra sui binari che essa ha preso dopo la prima avanzata russa e la sua sconfitta: poche decine di chilometri quadrati persi o guadagnati a costi umani altissimi in mesi di battaglie.
La durezza delle circostanze grava anche su Putin, che è riuscito dopo l’assassinio di Prigozhin a ristabilizzare il suo potere e a garantirsi una parentesi di supremazia militare grazie al rallentamento degli aiuti all’Ucraina, al sostegno della Cina e agli accordi con Iran e Corea del nord. Le nuove nomine da lui varate in questi giorni anche per promuovere generazioni più giovani – una scelta tipica di tanti dittatori di una certa età (alcuni dei quali preferivano farlo sterminando la vecchia guardia) – indicano la preoccupazione per le conseguenze economiche e sociali della guerra; il rispetto delle vecchie amicizie, collocate a riposo in posizioni importanti, e quindi l’attenzione alla tenuta del gruppo al potere; e la conferma della decisione di far virare con decisione la Russia verso la Cina, segnalata anche dalla recente visita a Pechino e dalla composizione della delegazione che lo ha accompagnato.
La visita è stata preceduta da quella che, più che uno sfondamento sul fronte di Kharkiv (per cui pare che non vi sarebbero le risorse militari e umane, cosa tuttavia difficile da accertare visto che, al contrario del 2021-22, Washington non divulga le sue informazioni), sembra una manovra tesa a posizionarsi nel modo migliore, anche psicologicamente e dal punto di vista “discorsivo”, in vista di possibili negoziati. La spinta in questo senso è confermata dalla richiesta di una “soluzione politica” (naturalmente favorevole a Mosca), che lascia capire che la Russia è messa peggio di quel che si crede, come sembra indicare anche la pochezza della sfilata della vittoria del 9 maggio, che Putin avrebbe preferito, se fosse stato possibile, celebrare ostentando ben altri successi. È molto probabile che Putin si renda anche conto dei pericoli della dipendenza dai cinesi – che gli hanno appena ricordato, colle lungaggini sul gasdotto Power of Siberia 2, chi ha il coltello dalla parte del manico – e cerchi per questo una “soluzione politica” in un momento a lui favorevole.
Più in generale, la spinta verso una soluzione negoziale, di tipo armistiziale piuttosto che di vera e propria pace, è forte ovunque, Stati Uniti e paesi europei inclusi, con la possibile eccezione di una Cina che, al di là della sua retorica, ha moltissimo da guadagnare (la Russia) e poco da perdere (qualche mercato europeo, vista la decisa virata protezionistica di Biden). Difficile quindi dire se questa spinta si concretizzerà a breve. Molto dipende dall’andamento del conflitto, dalle elezioni europee e poi e soprattutto dall’esito di quelle statunitensi. Ma molto è legato anche alla narrazione e alla capacità di iniziativa politica – ucraina, russa, europea ecc. – e soprattutto al peso delle garanzie militari, diplomatiche e economiche che Washington, Londra e le capitali europee (l’Unione?) sapranno offrire all’Ucraina. È ovvio per esempio che, a meno di una sconfitta sul campo, Kyiv considererà proposte che contemplino una tempistica certa per la sua adesione all’Unione e garanzie legate alla Nato, anche senza un partecipazione formale, diversamente da altre più oscure, che ne minerebbero libertà e indipendenza.
Sullo sfondo di questi scenari emergono con nettezza il problema militare e quello nucleare. Come alcuni sanno, al contrario di quanto si ama ripetere, l’“occidente” ha in realtà aiutato relativamente poco l’Ucraina per ragioni che non sono solo legate alla scarsa capacità produttiva dell’industria europea (e, ma meno, americana) degli armamenti o agli scarsi investimenti europei degli ultimi decenni in materia di difesa. Dal primo giorno dell’invasione, l’elefante nella stanza è l’arsenale nucleare russo, il più grande del mondo. È a causa della sua esistenza che Kyiv non ha ricevuto copertura aerea, razzi a medio e lungo raggio e altre armi “offensive” e che si è vista spesso centellinare quelle che pure le erano fornite, accompagnate da vincoli relativi al loro uso. Il più che comprensibile timore strategico di innescare un conflitto nucleare ha pesato più delle posizioni di una parte dei repubblicani statunitensi e molto più di quelle dei tanti amici europei di Putin e di un pacifismo sostanzialmente ipocrita anche quando si crede sincero. Mosca quindi non ha perso una guerra che avrebbe potuto perdere in pochi mesi perché ha le bombe atomiche; Kyiv rimpiange di essere stata convinta a darle le sue nel 1994; ed è probabilmente anche perché ha un sia pur non dichiarato arsenale nucleare (qualche decina di testate) che Israele è stata accettata dagli altri stati del Medio oriente, spingendo chi vedeva i suoi interessi minacciati da questa accettazione a scatenare l’attacco del 7 ottobre.
Ma se è così, e si direbbe lo sia, cosa vede oggi un dirigente politico che tiene all’indipendenza del suo paese? Che nel nuovo mondo generato dalla crisi del sia pur disordinato (ma rimpianto) “ordine” precedente, avere una propria deterrenza nucleare è essenziale. Non è quindi difficile immaginare che chi ha le necessarie risorse economiche e scientifico-tecnologiche penserà a costruire (o ricostruire), e non solo per ragioni energetiche, una propria industria, e quindi una propria capacità, nucleari. Ma se questa è forse la lezione chiave impartita dall’aggressione russa dell’Ucraina a livello internazionale, si potrebbe arrivare a una crisi strisciante dei trattati di non proliferazione. Del resto non è un caso che tutte le superpotenze attuali o aspiranti tali – Stati Uniti, Cina, India e Russia – abbiano già un loro arsenale (rispettivamente 5.044, 500, 170 e 5.580 testate). L’eccezione è naturalmente l’Unione europea che ha sin qui basato la sua sicurezza indirettamente, via Nato, sulla deterrenza statunitense, affiancata da quelle francesi e britanniche (290 e 225 testate). Ma la Brexit e l’usura di una Nato che Trump e Macron hanno in tempi non sospetti definito in agonia ci ricordano che il vecchio meccanismo è inceppato, e la prospettiva di una rielezione di Trump, che già fatto filtrare i suoi pensieri in merito, rende il futuro ancora più minaccioso.
Si torna così alla sfida che le politiche aggressive di Putin hanno indirettamente lanciato all’Unione europea: farsi il prima e il più creativamente possibile quanto più stato è possibile, come furono costretti a farsi gli Stati Uniti nel 1861 dalla Guerra civile. Come dimostrano le prese di posizione di Macron o dei socialdemocratici tedeschi, la coscienza di questa sfida esiste. Si tratta di un puzzle composto da tanti pezzi che varrebbe la pena analizzare, come la indispensabile formalizzazione di una lingua veicolare comune; una politica decisa a favore della creazione di una opinione pubblica e di una stampa europee; l’elaborazione di un discorso legittimante capace di dare fondamento e riconoscibilità all’Unione; e una politica economica e fiscale capace di reggere la moneta unica in tempi difficili. Sono tutti pezzi importantissimi. Ma sul breve periodo ancor più importanti sono la modifica dei meccanismi decisionali (il libero veto, vale a dire una forma di unanimità, fu alla radice del crollo e della spartizione della Confederazione polacco-lituana, uno dei più grandi stati europei del XVIII secolo) e la formalizzazione di nuove regole e di nuove autorità in materia di difesa e armamenti.
Ma se è così, e si direbbe lo sia, è evidente che va affrontato anche il problema della capacità nucleare dell’Unione, perno cruciale della sua indipendenza e del suo esserci nel mondo. Di qui discende la centralità dei rapporti con la Francia, che è uno stato membro come gli altri, ma è anche l’unico ad avere una deterrenza nucleare. Sono rapporti delicati e complessi, che non è facile impostare ma che vanno costruiti, e l’Italia potrebbe giocare un ruolo importante.
La costruzione di una difesa e di una deterrenza dell’Unione aiuterebbe pure a mettere in agenda la necessaria riforma della Nato, in termini politici, militari e di paesi membri. Le liberaldemocrazie non possono affrontare il mondo globalizzato di oggi con un’alleanza pensata più di 80 anni fa e che, come dichiara il suo nome, aveva il suo perno in un Atlantico settentrionale che non è più il centro del mondo. La nuova alleanza militare di cui avremmo bisogno non può che essere globale, come globale deve essere l’alleanza politica che la sottende e la nutre, di cui con un po’ di ottimismo è possibile intravedere i germi nel crescente ruolo del G7.
Sono compiti difficilissimi, che solo una politica alta può affrontare con qualche speranza di successo. Ma che la sfida sia questa lo suggerisce anche la storia della nostra penisola, che ne ha affrontato due volte di simili. La prima alla fine del XV secolo, segnato dal tracollo della Lega italica (da noi era nato il primo “sistema di stati” moderno e il primo tentativo di unirli) e dalle “guerre d’Italia”, che portarono alla perdita di indipendenza o alla subordinazione di molti di quegli stati, diventati scialuppe in balia di Parigi, Madrid e Vienna, e alla disperazione di Machiavelli, che non a caso “vide” allora per primo lo stato moderno. La seconda nel XIX quando Cavour riuscì invece a vincere la sfida, ponendo fine a tre secoli di dipendenza.
Bisogna quindi sperare che l’Unione abbia la fortuna di trovare un gruppo dirigente all’altezza di questa sfida, perché un mondo di grandi come gli Stati Uniti, la Cina, l’India e forse un domani la Nigeria e l’Indonesia si gioverebbe di una presenza europea, e sarebbe triste vedere gli stati europei diventare piccole scialuppe. Occorre dunque provarci, con la coscienza che per fortuna provarci vuol dire anche lavorare al miglioramento della nostra eventuale piccola scialuppa, quella con cui saremmo, in caso di fallimento, chiamati a navigare un mare difficile.