(foto EPA)

da Israele

Spari al confine con l'Egitto, il frastuono di Rafah

Micol Flammini

In due giorni la storia dell'avanzata israeliana da sud è cambiata: prima le vittime nel campo per sfollati, poi la morte del soldato egiziano. Sui prossmi negoziati molto incerti tutto questo avrà un peso, ma c'è una sicurezza: Sinwar vuole o un successo completo o una sconfitta totale

Tel Aviv, dalla nostra inviata. Faceva paura soltanto a nominarla, l’operazione militare israeliana a Rafah: per mesi linea di fuoco tra il praticabile e l’impresentabile, tra il concesso e l’inconcepibile. Quanto rumore per Rafah, e invece è iniziata in silenzio, con un’evacuazione che aveva sorpreso gli Stati Uniti che per mesi avevano accusato Israele di non avere “un piano credibile” per portare i civili palestinesi lontano dalle zone più rischiose. Gli Stati Uniti tanto avevano sventolato Rafah come il limite della sopportazione che un alleato poteva tollerare, che poi avevano ammesso di essersi ricreduti, avevano lodato il piano di evacuazione “aggiornato”, avevano acconsentito alla presa israeliana del valico di Rafah dalla parte di Gaza – un’operazione utile a tagliare le linee di rifornimento di Hamas – avevano detto con chiarezza che così come veniva condotta, la campagna a Rafah non era “una linea rossa”. Il chiasso del nome Rafah era finito in sordina, fino a domenica, quando è diventato frastuono. Prima l’incendio in un campo di sfollati in cui sono morte quarantacinque persone in seguito a un attacco israeliano e poi lo scambio di colpi tra Tsahal e soldati egiziani hanno riscritto in due giorni la storia della caccia di Israele ai terroristi di  Hamas e agli ostaggi rimasti nella città più grande nel sud della Striscia.  Domenica i terroristi avevano lanciato otto razzi contro Israele. “Non era un segreto che Hamas conservasse a Rafah ancora razzi a lunga raggio”, dice al Foglio Harel Chorev, professore della Tel Aviv University ed esperto in studi palestinesi presso il Moshe Dayan Center.  “Quando Hamas sa che i nostri soldati si avvicinano, spara quello che rimane”. 

 

Lo fanno per due ragioni: “Perché non vogliono che Tsahal distrugga i loro arsenali, quindi preferiscono usare i razzi che rimangono, e per indurci a sovrastimare la loro forza. Invece gli attacchi sono un segno di debolezza”. Israele ha risposto bombardando le postazioni di lancio, nella notte ha poi   attaccato nella zona di Tel Sultan per colpire una riunione di alti funzionari di Hamas. Sono stati uccisi Yassin Rabbia  e Khaled Najjar, coordinatori delle attività in Cisgiordania, tutti e due liberati, come Yahya Sinwar, durante lo scambio per far tornare a casa il soldato israeliano Gilad Shalit nel 2011. Dal bombardamento però, condotto secondo l’esercito con armi di precisione, si è propagato un incendio che ha causato la morte di quarantacinque persone che si trovavano nel campo per sfollati. L’esercito ha aperto un’indagine interna, il premier Benjamin Netanyahu, riluttante ad ammettere colpe, errori o omissioni, ha parlato di “tragico errore”, gli Stati Uniti hanno chiesto a Israele di aumentare gli sforzi per proteggere i civili. Il paese sente gli occhi della comunità internazionale addosso e vede sfaldarsi uno sforzo militare che a Rafah  era iniziato anche nel tentativo di dimostrare in modo incontrovertibile che mentre Hamas si rifugia tra i civili, Tsahal sa come colpirlo. Il professor Chorev ha visto il video dell’attacco: “Si sente il suono  dell’arma che arriva, è simile a un lamento, dopo la prima esplosione ce ne sono altre, come se avesse colpito un deposito e da lì è partito l’incendio. Ma ancora non sappiamo cosa sia successo”. 


Lunedì, mentre il ministero della Salute di Hamas continuava ad aggiornare il numero delle vittime, un altro episodio si è verificato a sud, attorno a Rafah, da una e dall’altra parte del valico che divide Israele e l’Egitto: i soldati egiziani avrebbero aperto il fuoco contro un camion israeliano, Tsahal ha risposto al fuoco, un soldato egiziano è stato ucciso. Gerusalemme e il Cairo si sono subito sentiti, hanno rilasciato dichiarazioni con parsimonia, tastando l’umore delle dichiarazioni altrui, centellinando le parole per salvare una relazione sempre più complessa. Da quando Israele ha preso il controllo di una parte del valico di Rafah, l’Egitto ha iniziato a rivedere il suo ruolo al tavolo dei negoziati, ha bloccato il flusso degli aiuti, lasciandolo ripartire soltanto su pressione americana. I colloqui tra Israele e Hamas sono mediati dagli egiziani e dai qatarini, fino a qualche settimana fa, Gerusalemme era convinta di potersi fidare dei primi e non dei secondi, ma improvvisamente, per ragioni politiche, il Cairo aveva cambiato le sue priorità e ora che si parla di una riapertura delle trattative non si sa  come potrebbe comportarsi. “Ci sono trattative sul tavolo e trattative sotto il tavolo – dice Chorev – sotto il tavolo è interesse di tutti, anche dell’Egitto, che Israele sconfigga Hamas”, ma sopra al tavolo il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi fa vedere che ascolta le pressioni interne, la sua piazza contro Israele. I nuovi negoziati comincerebbero con molte esitazioni, con Rafah che di nuovo spaventa e frastorna le alleanze, ma con una certezza, secondo Chorev: “Il leader di Hamas Yahya Sinwar vuole o un successo completo o una sconfitta totale, nella loro ideologia non c’è compromesso, non c’è negoziato”.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)