Il reportage

Nel nord di Israele avanza il vuoto, Hezbollah ne approfitta. Per risolvere il conflitto ci sono tre soluzioni

Micol Flammini

Per i cittadini evacuati dalla Galilea il futuro ha due numeri: 1701 o 07.10. La risoluzione Onu e la data: una formula matematica che Gerusalemme però non può risolvere da sola

Gerusalemme, dalla nostra inviata. Il futuro del nord si risolve con i numeri. Con una formula matematica che Israele però non può risolvere da solo. Gli abitanti della Galilea, evacuati a Gerusalemme da quando a ottobre Hezbollah ha deciso di unirsi alla guerra di Hamas, lo riassumono così: 1701 o 07.10. Ripetono i numeri come per scacciare il pensiero, li scrivono sulle magliette, poi li mostrano e li sventolano verso l’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu, lungo via Kaplan che collega i posti del potere e delle decisioni. 1701 è il numero della risoluzione dell’Onu del 2006 che oltre a sancire il cessate il fuoco tra Israele e Libano, stabilisce che sotto al fiume Leonte, a trenta chilometri dal confine con Israele, nel territorio libanese non debbano esserci milizie irregolari: il gruppo sciita Hezbollah è, senza dubbio, una milizia irregolare. L’equazione per i cittadini del nord è semplice, infantile, serve a evitare un trauma: o viene rispettata la 1701 oppure il prossimo 7 ottobre sarà a nord, lungo il confine rumoroso tra Israele e Libano, rimasto spopolato, deserto, a favore dei colpi di mortaio degli uomini di Hezbollah. I cittadini del nord guardano il sud, quello colpito e martoriato dai terroristi di Hamas, e ci vedono una premonizione, ma hanno la soluzione per scacciarla. Ogni tanto si accampano tra la Knesset e i ministeri e contano il tempo che è passato tra le promesse e i missili. 

 

 

Con loro hanno una mappa, Matan, tra gli organizzatori della protesta, la mette ben in vista e indica una linea ondulata: il fiume Leonte. “Devono andare oltre, è semplice, non lo diciamo noi, lo dice la risoluzione dell’Onu”, lo ascoltano molti ragazzi, sono arrivati in massa cantando “Am Yisrael Chai”, l’inno non ufficiale del paese: “Il popolo di Israele vive”. Sono arrivati come un’onda, chiassosi, con addosso la festa che ogni protesta porta con sé, si sono infilati una maglietta con i due numeri che indicano il bivio: la sicurezza o il disastro, 1701 o 17.10, il futuro o la sua mancanza, il ritorno a nord o il momento più brutto della storia di Israele. Ragazzi e adulti ballano, cantano con le magliette addosso, chiamano “Bibi”, che però non è in ufficio ma sta visitando proprio il nord, dicono di voler tornare a casa, ma soltanto quando saranno al sicuro. A Gerusalemme sono stati sistemati in vari alberghi, vanno a scuola in classi improvvisate, gli adulti che avevano attività, imprese, uffici, non lavorano. Circa quattrocentomila israeliani ciondolano nell’attesa che le minacce si fermino o che la guerra inizi. Nessuno della maggioranza di governo raggiunge i manifestanti, Bibi non arriva, ma la politica si affaccia. Due deputati dell’opposizione di Yesh Atid, il partito di centrosinistra guidato da Yair Lapid, fanno foto e tengono discorsi, guardano la mappa con il fiume Leonte, la linea della salvezza, e promettono di tenere il governo incollato al nord, di non farlo distrarre. Il primo ad arrivare è Moshe Kinley Tur-Paz, al bavero della giacca ha il fiocco giallo a lutto che quasi ogni israeliano porta con sé, è uno dei simboli degli ostaggi, il ricordo quotidiano della loro sofferenza. “Noi un piano ce lo abbiamo”, dice Tur-Paz al Foglio. “Il governo deve fissare una linea rossa, o si fa un accordo vero che consenta ai cittadini di tornare a casa, o si combatte. Hezbollah deve avere chiaro in mente che il rischio esiste, deve vederla la linea rossa, deve essere chiara”.

 

 

Pronuncia il verbo combattere con tristezza, quasi fosse la medicina estrema, sembra sentirne l’amaro in bocca mentre ne parla. Eppure c’è un rimedio anche alla medicina: “Queste persone sono state buttate fuori di casa e bisogna fare tutto il possibile per ridare loro la vita e l’economia alla Galilea, la regione colpita. Noi però abbiamo bisogno che gli europei stiano con noi, siamo attaccati costantemente dai terroristi di Hezbollah, c’è una risoluzione dell’Onu che tutti devono fare in modo che venga rispettata”. Quella linea ondulata che attorno alla mappa tutti guardano con curiosità e che i ragazzi, dopo la lezione di Matan, indicano e discutono, sembra essere un affare solo dei cittadini della Galilea, invece tutti ne parlano come una questione non soltanto israeliana, ma di tutti, italiana, europea, delle Nazioni Unite. Attorno alla mappa riprendono i canti, si alza un cartello con la scritta: “Tony ligdol beshket”, lasciateci tornare in pace. Ma a nord non si può tornare, se fino a qualche settimana fa Hezbollah lanciava una quindicina di attacchi a settimana, adesso arrivano fino a novanta. E’ un continuo, è già guerra, ma se i cittadini sono stati allontanati è perché più che dei missili, Israele ha paura delle infiltrazioni. Hezbollah ha una forza addestrata per fare pressione lungo il confine e irrompere nel territorio israeliano. Sarit Zehavi dell’Alma Center, che monitora le attività a nord, è esausta. Non tanto per gli attacchi, ma perché in quasi otto mesi tutto è fermo, immobile, Hezbollah si fa sempre più minaccioso, Israele risponde. “La guerra totale può arrivare in qualsiasi momento, le capacità di Hezbollah sono aumentate, le loro forze Radwan sono addestrate per infiltrarsi. Eppure ci sono cose che possiamo fare. Almeno tre”.

 

Elenca i punti: “Azioni difensive. A nord abbiamo bisogno di rifugi, come ce ne sono nel sud, se la gente non ha neppure dove ripararsi durante gli attacchi come può tornare? Il governo deve investire in forze di difesa in grado di intervenire rapidamente in caso di infiltrazioni, a sud non c’erano e abbiamo visto cosa è accaduto con Hamas. Poi ci sono azioni offensive: l’esercito deve aumentare gli attacchi contro le infrastrutture di Hezbollah, tra il rispondere ai loro lanci e la guerra totale ci sono molti gradi di separazione”. Poi c’è il terzo punto: “Dobbiamo collaborare con la comunità internazionale, Hezbollah è una minaccia internazionale, finché sarà lì, finché sarà lasciato in grado di agire, il nord non sarà più un posto in cui vivere”. Sono tre punti, tre soluzioni, tre dubbi, intanto c’è una parte di Israele rimasta vuota, risuona dell’attacco dei missili. E il vuoto  fa paura, Hezbollah lo guarda e lo sente suo: è questo il non detto in questa manifestazione con canti, ragazzi e voglia di casa. Il vuoto è un invito, nessuno lo guarda.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)