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Big business

Uscire dalla Russia: in principio fu Carlsberg

Stefano Cingolani

Quanto è tollerato fare business a casa di Putin? Una mappa degli imbarazzi in cui sono state coinvolte le principali multinazionali europee, in fila per lasciare Mosca

La partita tra il Cremlino e il big business era cominciata con la danese Carlsberg, la regina della birra e con la francese Danone; adesso è entrata in campo anche l’italiana Ariston, mentre una corte di San Pietroburgo ha sequestrato 800 milioni di euro a tre grandi banche: l’italiana Unicredit (ben 467 milioni) e le tedesche Deutsche e Commerzbank, invitate dalla Bce a disincagliarsi al più presto dalla trappola russa. Zar Vlad ha avviato la sua rappresaglia, le imprese hanno messo in campo uno stuolo di avvocati d’affari, i governi hanno mobilitato la diplomazia per cercare vie d’uscita morbide. L’italiana Intesa lo scorso settembre aveva trovato una soluzione meno dolorosa cedendo alla banca di Gazprom le attività già ridotte del 77%. E l’avvertimento a Unicredit rivolto anche dal governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta ha come sottofondo la proposta di seguire la stessa strada prima di subire perdite pesanti. Mai come questa volta business as usual si rivela non solo cinico, ma contrario agli interessi di tutti i paesi occidentali i quali a loro volta, in un modo o nell’altro, hanno lasciato fare.

 

Lo schema originario è quello sperimentato nel caso Carlsberg. Il gruppo danese lo scorso anno aveva cercato di vendere Baltika breweries, la propria filiale sul suolo russo. Operazione complessa, tra paletti legali, top manager accusati di frode da parte del Cremlino e timori per i dipendenti. Ma, trovato finalmente un potenziale acquirente, Mosca ordina il  trasferimento dello stabilimento a un'agenzia dello stato. Schema simile a quello subito dalla Ariston.  I vertici di Carlsberg si dicono all’oscuro e profondamente sorpresi. “Ci hanno rubato l'attività in Russia”, dichiara l'amministratore delegato Jacob Aarup-Andersen e straccia la licenza che consentiva a Baltika di vendere prodotti della casa madre. Comincia una infinita battaglia legale. E’ andata meglio alla Danone perché nel marzo scorso Putin ha deciso di annullare l’esproprio dei beni tenuti per un anno in gestione temporanea. Anche il gruppo francese aveva trovato un acquirente locale prima del blocco. Ora s’è impegnato a vendere gli yogurt a prezzi politici. Le tre banche, invece, sono state “punite” per aver rifiutato di garantire un impianto di trattamento del gas nella regione di Leningrado da parte della società Linde, che avrebbe violato le sanzioni. Di legale e di economico c’è davvero poco, di politico davvero molto. Lo aveva ammesso il portavoce Peskov per giustificare il tira e molla: “Tutto dipende dalle opportunità”.

Società come la francese Air Liquide (gas tecnici), l’americana Avon (cosmetici), la britannica Reckitt (beni di consumo), sono ancora in Russia nonostante avessero annunciato di voler mollare. Tra inghippi burocratici ed ostacoli politici non hanno trovato vie d’uscita e hanno preferito ignorare le sanzioni. Più di 2.173 multinazionali sono rimaste secondo una mappa della Kyiv School of Economics, 1.223 hanno ridimensionato i loro affari e solo  387 se ne sono andate del tutto tra queste Renault, Nike, Hugo Boss. E’ vero che il Cremlino ha fatto ricorso a rappresaglie fiscali per trattenerle compresa una exit tax del 15%, ma la sproporzione è impressionante. Sembra che ci siano 700 società in lista d’attesa per lasciare Mosca, ma il ministero delle finanze non concede più di dieci permessi al mese. E i trucchi abbondano. La Coca Cola non vende in Russia, ma passa per la Grecia. La PepsiCo ha sospeso le bibite, ma produce latticini. Continuano a operare Unilever, Nestlé, Philip Morris. Le rotte del petrolio passano da Cipro e dalla Grecia per la Turchia e il Mar Nero. Mentre sul Caspio l’Azerbaijan naviga sull’oro nero. Le imprese italiane si sono adeguate all’andazzo. Prima che Putin invadesse l’Ucraina c’erano 450 aziende oggi secondo Il Sole24Ore ne restano ben 350. La università di Yale aveva pubblicato a fine 2022 un’analisi sulle intenzioni dei maggiori gruppi e avevano trovato che Zegna, Geox, De Cecco, Cremonini, Calzedonia, Menarini, Unicredit, Buzzi Unicem avevano deciso di restare; Barilla, Campari, De Longhi, Maire Tecnimont, Saipem, Intesa, Armani stavano prendendo tempo; Enel, Ferrero, Iveco e Pirelli, Benetton riducevano le operazioni; CNH, Ferrari, Leonardo, Moncler, Prada, sospendevano le attività; Eni, Generali, Ferragamo, Yoox interrompevano la loro attività. Da allora, tranne qualche caso virtuoso, la situazione è in stallo tra burocrazia, timore di perdere i quattrini e rischio di non rimettere più piede in Russia. Il grande business fa melina e Putin gongola.

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