Donald Trump - foto via Getty Images

Verso le presidenziali 2024

Che cosa ci dice il "tariffario" di Donald Trump sui soldi alla politica

Marco Bardazzi

La politica ha bisogno di soldi e per chiederli ci sono due approcci: i sussurri o le grida. L'ex presidente pochi giorni fa ha urlato davanti ai grandi donatori del partito Repubblicano le sue richieste, mentre dall'altra parte Joe Biden si inventa eventi costosi al Radio City Music Hall. Tutto lecito, basta che sia trasparente

La politica da sempre ha bisogno di soldi e per chiederli ci sono due approcci: i sussurri o le grida. Niente svela meglio questa differenza di metodo di ciò che si racconta in questi giorni a Genova e a New York. I sussurri di Giovanni Toti sullo yacht “Leila 2” di Aldo Spinelli e le grida di Donald Trump nel salone delle feste del lussuoso Pierre Hotel affacciato su Central Park. L’Italia, anche per il suo passato, è il paese dove di soldi alla politica si parla sottovoce, come un tempo avveniva nelle famiglie quando si citava una brutta malattia. Per ottenere finanziamenti regolarmente dichiarati – le indagini diranno se collegati o no a favori specifici – un presidente di Regione deve cercare le parole giuste, sussurrando, mentre la Guardia di finanza tende le orecchie e sbobina paginate di intercettazioni.
 

Se saltiamo dall’altra parte dell’Atlantico, troviamo invece Trump al Pierre Hotel alle prese con una platea di donatori top del Partito repubblicano, ai quali qualche sera fa ha illustrato ad alta voce e senza troppi giri di parole il tariffario per la campagna presidenziale 2024. “Un imprenditore ha donato di recente un milione di dollari alla mia campagna – ha detto Trump, secondo il Washington Post – e per questo ha chiesto un pranzo con me. Neanche per idea! Se volete un pranzo con me, facciamo 25 milioni. C’è un altro imprenditore che di solito dona tra i due e i tre milioni ai repubblicani. Gli ho detto che se vuole farmi veramente felice, devono diventare 25-50 milioni”.
 

Perché versare tutti questi soldi? L’ex presidente lo ha spiegato muovendosi sul filo delle leggi federali sul finanziamento alla politica, che vietano di collegare direttamente i contributi elettorali a una specifica iniziativa di legge. Pochi minuti dopo aver parlato del “tariffario”, Trump ha citato una serie di interventi che i donatori possono aspettarsi se tornerà alla Casa Bianca. Primo tra tutti, la difesa dei tagli fiscali per i redditi alti e le grandi società decisi dalla prima Amministrazione Trump: scadranno alla fine del 2025 e il presidente Joe Biden intende farli sparire. Il messaggio neanche troppo implicito di Trump è stato: guardate che i soldi che vi sto chiedendo sembrano tanti, ma sono solo una frazione di quanto vi costerà un altro mandato di Joe Biden.
 

Un segnale analogo l’ex presidente lo ha mandato qualche settimana fa a un gruppo di top manager del mondo petrolifero suoi ospiti nella residenza di Mar-a-Lago. Dicono i racconti di quella sera che i manager si siano lamentati per aver speso nel 2023 quattrocento milioni di dollari per attività di lobbing a Washington e nonostante questo essersi trovati con l’Amministrazione Biden che ha imposto ulteriori e costose regolamentazioni ambientali. Trump ha subito rilanciato: “Facciamo un patto: raccogliete un miliardo in donazioni per la mia campagna elettorale e quando sarò alla Casa Bianca ci penso io”.
 

Le cifre sparate da Trump appartengono in realtà al mondo degli eccessi narrativi del personaggio. Dalla parte dei democratici si fa lo stesso, solo con uno stile diverso. Quando il team del presidente ha voluto raccogliere 26 milioni di dollari in una sera a New York, non lo ha fatto a porte chiuse al Pierre Hotel, ma ha inventato uno show al Radio City Music Hall con Biden sul palco insieme ai suoi predecessori, Barack Obama e Bill Clinton. Per chiunque volesse fare una foto con tutti e tre, il tariffario era centomila dollari. Con duecentocinquantamila si entrava in una saletta riservata, con mezzo milione si poteva discutere faccia a faccia di politica con tre presidenti degli Stati Uniti.
 

Ma l’intero sistema di finanziamento alla politica americano è costruito su due presupposti: i dollari si chiedono a voce alta e senza vergogna, ma tutto deve essere tracciabile e trasparente. E infatti Trump si è messo nei guai, nel processo che si sta concludendo a Manhattan, per aver cercato di nascondere durante la campagna elettorale del 2016 un versamento di 130 mila dollari (briciole rispetto ai soldi della politica) che avrebbe usato per pagare il silenzio di una pornostar.
 

Le leggi federali vietano ai candidati di chiedere personalmente contributi superiori ai 3.300 dollari a elettore. Ma il limite si applica al solo finanziamento diretto della campagna del candidato, intorno alla quale si muovono una serie di strutture di fundraising, i Pac (Political action committee) e SuperPac, che hanno limiti assai più alti o non ne hanno alcuno. È evidente a tutti che versare contributi elettorali serve a cercare di ottenere influenza sui poteri legislativo ed esecutivo. C’è un motivo se gran parte degli oltre due miliardi che Biden e Trump raccoglieranno prima del voto di novembre arriveranno da società di settori altamente regolamentati come finanziario, assicurativo, immobiliare, farmaceutico, hi-tech, energia. C’è un motivo chiaro se solo nel primo trimestre del 2024, un anno elettorale, i lobbisti federali di K Street a Washington hanno avuto complessivamente un fatturato record di un miliardo e 200 milioni di dollari.
 

Il sistema funziona grazie alla trasparenza: si chiede ad alta voce e si registra ogni dollaro che si riceve. Navigare nelle banche dati di OpenSecrets.org, la principale piattaforma che monitora i finanziamenti alla politica, spiega nel dettaglio da dove arrivano i soldi su cui si reggono le costose macchine elettorali americane. L’importante è non sgarrare. Si possono chiedere 25 milioni di dollari per una cena, ma non nascondere 130 mila dollari dati a una pornostar.

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