Donald Trump (Ansa)

tramonto a destra

Per imparare a parlare, le intelligenze artificiali sono costrette a ignorare Trump

Pietro Minto

Le IA generative sono capaci di creare frasi di senso compiuto ma hanno un problema: non sanno di cosa parlano. Così le aziende del settore stanno cercando accordi con editori e media per ottenere informazioni e notizie attendibili attraverso cui allenare gli algoritmi. Escludendo le voci più di parte e ideologiche, quelle vicine all'ex presidente

Le intelligenze artificiali generative sono capaci di creare frasi di senso compiuto ma hanno un problema: non sanno di cosa parlano. Lo si è visto in questi giorni anche grazie a Google, che ha presentato negli Stati Uniti “AI Overviews”, una funzionalità in grado di generare una risposta scritta invece della solita sfilza di link e risultati di ricerca. Il servizio ha dato però molte risposte sbagliate e assurde, spesso basandosi su commenti ironici trovati su Reddit o articoli dal giornale satirico The Onion. 

Le aziende del settore IA hanno quindi bisogno di fatti, informazioni e notizie attendibili, e le stanno cercando dagli editori, che a loro volta sono alla ricerca di entrate economiche. Così è nato l’accordo siglato la scorsa settimana tra OpenAI, azienda sviluppatrice di ChatGPT, e News Corp., editore statunitense del Wall Street Journal,  New York Post, del britannico The Sun e altre testate, per un totale di 250 milioni di dollari nell’arco di cinque anni, in cambio dei quali OpenAI potrà usare i vasti archivi e le breaking news del gruppo per allenare le sue IA  – e rendere le sue risposte più attendibili e aggiornate.

La firma di News Corp è seguita quella di altri gruppi e giornali, che hanno già stretto accordi con OpenAI nei mesi scorsi, come Axel Springer (Business Insider, Politico), il Financial Times e Associated Press. Il New York Times rimane invece la principale testata ad andare controcorrente, dopo aver denunciato sia  OpenAI sia Microsoft per aver utilizzato i suoi articoli senza permesso.

Per quanto diverse, tutte le testate citate sono mainstream, vecchie glorie della carta convertite al digitale, con una connotazione centrista (con alcune eccezioni come il tabloid New York Post, di centrodestra, e il New York Times, più liberal). A rimanere escluse da questa prima ondata di strette di mano con Big Tech sembrano essere le voci più di parte e ideologiche, soprattutto quelle vicine a Donald Trump, che a partire dal 2016 hanno saputo sfruttare gli algoritmi dei social network – Facebook in primis – per aumentare il loro traffico.

Realtà statunitensi come Breitbart e il Daily Caller, che più di ogni altre hanno dominato il News Feed di Facebook, rimangono per ora escluse dagli accordi, per di più in un momento in cui tutta l’industria digitale registra pesanti perdite e crolli dei cosiddetti “referral”, le grandi sorgenti di traffico per la maggior parte dei siti web: come Facebook, appunto, ma anche e soprattutto Google. Neil Patel, cofondatore del Daily Caller, ha detto al sito Semafor di essere preoccupato ma non sorpreso: “Queste aziende di sinistra stanno ignorando fonti di notizie di cui si fida metà America e si impegnano ad allenare i loro modelli di AI solo su fonti sinistrorse”.

Il tutto arriva in un momento particolarmente delicato per il giornalismo online ma soprattutto quello più battagliero e politicizzato, che ha saputo navigare l’era social trasformando testate minuscole e di nicchia in media influenti e ricchissimi. E che ora devono fare i conti con un panorama algoritmico diverso: secondo Comscore, il Daily Caller ha perso il 57 per cento del suo pubblico, Drudge Report l’81 per cento e The Federalist il 91. Un complotto? Si direbbe di no: dopo i due cicli elettorali del 2016 e del 2020, Facebook ha deciso che investire sulle notizie nella sua piattaforma non valeva il grattacapo (e il rischio di attirare le attenzioni del Congresso), e ha deciso di chiudere i rubinetti. Negli ultimi anni, il News Feed è diventato semplicemente “Feed” e la politica è stata rimossa, disincentivata da questi spazi. Questo è successo sia a destra che a sinistra (siti come Slate e il Daily Beast hanno perso tra il 40 e il 60 per cento del loro pubblico).

Le testate della destra americane soffrono quindi la fine di un’era social che hanno sapientemente dominato, e che è simbolicamente finita proprio con l’acquisto di Twitter (oggi X) da parte di Elon Musk, diventato un punto di riferimento per la destra globale senza però trasferire abbastanza traffico ai siti di news.
 

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