Dalla nostra inviata

Tra gli israeliani e l'esercito si è rotto un patto

Micol Flammini

Sderot sa di essere una città indispensabile, i suoi abitanti sono tornati a vivere al confine con Gaza dopo il 7 ottobre e ora chiedono di sconfiggere Hamas

Sderot, dalla nostra inviata. Le strade sono vuote, si alza il vento e la sabbia entra nei rifugi messi qua e là, vicino alle fermate degli autobus, ai parchi giochi, sono colorati di blu, abbelliti con l’immagine di qualche animale, che per quanto sia stato disegnato con gli occhi grandi e amichevoli, non riesce a regalare grazia a questi blocchi di cemento. Sderot a essere bella neppure ci prova, ovunque ci sono edifici in costruzione e visto il vuoto per le strade sembra impossibile che prima o poi possano ospitare qualcuno. Nessuno passa, ma il lavoro è incessante, non si vedono operai, soltanto gru. Per chi è Sderot? La città nel deserto del Negev, all’angolo della Striscia di Gaza, è cemento e sabbia e sarebbe stata uno dei principali obiettivi dei terroristi di Hamas e del Jihad islamico il 7 ottobre, se non avessero trovato il Nova Festival: sono rimasti a massacrare i ragazzi e hanno posticipato l’arrivo a Sderot, che nel frattempo veniva svegliata dalle sirene che annunciavano l’arrivo dei razzi. Nulla di inconsueto, hanno pensato gli abitanti quel mattino, che da vent’anni sono abituati a correre nei rifugi e aspettare che finisca.

 

Ma il 7 ottobre la sirena non finiva, continuava, imperterrita. Gitit era andata nel rifugio con sua figlia e suo marito, poi si era spostata da un amico che le aveva aperto esterrefatto: “Era shabbat,  non uso il telefono e non sapevo nulla”. Poi è tornata a casa, ha fatto in tempo a notare una figura che cercava di fare di irruzione, ha preso il coltello ed è corsa nel rifugio. Eduard invece stava andando in sinagoga quando si è visto tagliare la strada da un pick up bianco  a tutta velocità e accompagnato dalle grida degli uomini seduti dentro: “Allah Akbar!”. Ha pensato si trattasse di qualche disturbatore, ma è tornato a casa: “Mi ha chiamato il rabbino per dirmi di non andare più in sinagoga, ho acceso la televisione e ho visto la stessa macchina, gli stessi uomini”. Dopo il 7 ottobre, Sderot si è svuotata, sono rimasti gli anziani, un solo supermercato era aperto. Dopo cinque mesi ha iniziato a ripopolarsi, ora l’85 per cento dei suoi abitanti è tornato. “Noi vogliamo vivere qui, non possiamo andarcene. Perché dovremmo? Sono venuti a ucciderci per cacciarci, che senso avrebbe andare via? Anche se stiamo impazzendo tutti”, dice Gitit. A Sderot si sentono le esplosioni di Gaza, sono frequenti.

 

La guerra  qui ha una sola soluzione: Hamas va sconfitto. Da Sderot i terroristi avevano portato via un solo ostaggio, morto durante la prigionia, le scritte “Bring them home”, riportateli a casa, sono ovunque, ma al contrario di Tel Aviv, qui il pensiero va meno agli ostaggi e più al futuro.   “Oggi è Sderot, domani Ashkelon. Non sarà l’ultima guerra, ma deve essere l’ultima contro Hamas”. Gitit dice di avere paura tutto il tempo, “qui il cuore ti batte in modo diverso, è come giocare alla roulette russa, ma la roulette qui è una missione”.

 

I terroristi sono entrati a Sderot con una mappa in tasca in cui erano segnati vari punti chiave della città: la stazione di polizia e il municipio. Volevano occupare i posti del potere per avere il controllo, hanno preso la stazione, ma non il municipio, in cui lavorano sia Gitit sia Eduard, che quando parla disegna su un foglio di carta, riduce a schema ogni racconto. Giurano che Sderot non si spopolerà, ha aperto un nuovo bar, sono tornate le famiglie, ora i soldati sono davanti a ogni scuola, ma resta il silenzio per le strade. Qui si è infranto un patto. Il patto con il governo e con l’esercito, ora in città ci sono molti soldati, ma sembrano non fare la differenza.  Prima Sderot, come le altre città o kibbutz vicini al confine, si sentiva protetta, ora c’è una fiducia da ricostruire. Sono i soldati i primi a sapere che il patto si è rotto, che nel paese c’è molto da rifare, tanto da rifondare: il ragazzo davanti all’asilo  in uniforme con il fucile in spalla sembra chiedersi se qualcuno lo noti, se qualcuno si fidi. Si tiene la domanda per sé, conosce già la risposta. Gli abitanti sanno che le sofferenze evitate a Sderot sono state la condanna di chi era al Nova: l’evento che i terroristi non si aspettavano e in cui hanno ritenuto opportuno rimanere per causare il danno più profondo possibile. 

 

Non ci sono piani per il dopoguerra in questa città, si sente solo il battito impazzito del cuore, Eduard crede che Gaza dovrebbe diventare un affare di tutti: “Deve essere gestita dalla comunità internazionale, dagli europei. Tutti devono capire che da qui passa la sicurezza comune. Noi combattiamo per proteggerci, ma se scompare Israele, cosa verrebbe creato qui? Riguarda forse soltanto noi?”. Sderot non cerca amicizie. I soldati si aggirano senza sapere quando potranno essere trasferiti, non ispirano fiducia, ma a Sderot non importa, è qui per restare.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)