Dalla nostra inviata

Al valico di Kerem Shalom, tra gli aiuti e i lamenti dei parenti degli ostaggi

Micol Flammini

Davanti alla bocca di Gaza, tra l'Egitto e la Striscia, passa la maggior parte dei camion per i palestinesi. Una torta azzurra con due candeline, i genitori di Eitan urlano "Mazel Tov", ma tra il futuro del figlio e quello di Israele hanno già scelto

Kerem Shalom, dalla nostra inviata. Il valico di Kerem Shalom è piuttosto frequentato per essere un posto nel mezzo del nulla che tocca l’Egitto e la Striscia di Gaza. Da qui passa la maggior parte degli aiuti umanitari per i palestinesi, ha la forma di una bocca aperta. Rafah è vicina, se ne sente il rumore ogni tanto, i camion carichi di aiuti arrivano, stazionano, ripartono, vanno verso la Striscia. Il primo sforzo per rifornire Gaza di cibo inizia qui. Ogni giorno transitano fino a quattrocento camion, alcuni sono aiuti umanitari, altri sono prodotti che vengono venduti dentro alla Striscia e i camionisti, quando si trovano a scegliere cosa portare, se aiuti o beni da vendere, scelgono i secondi: le compagnie private pagano almeno il triplo per il trasporto e, indipendentemente da come Israele decida di far funzionare il valico, cosa consegnare è a discrezione di chi possiede i camion.  

 

 Valico di Kerem Shalom (foto di Micol Flammini)

 

Secondo le Nazioni Unite, da quando è incominciata l’operazione a sud della Striscia e Israele ha preso il controllo della parte palestinese del valico di Rafah, la consegna dei beni è diminuita di due terzi, secondo Shimon Friedman, portavoce del Cogat, l’unità che si occupa del coordinamento del valico, il problema è oltre, nel momento in cui Kerem Shalom smette di essere un affare israeliano e diventa una questione dell’Unrwa, ogni sforzo si perde, il tempo passa, le merci rimangono nel vuoto.  A presidiare la punta israeliana del valico ci sono i soldati, che controllano i camion assieme a uomini della sicurezza che rispondono al ministero della Difesa, non hanno insegne, non parlano, uno di loro indica: “Lì, lì, lo tzir filadelfi è lì”. Distrae gli occhi intenti a guardare il fumo di Gaza e mostra l’Egitto e il corridoio che avanza lungo il confine con Israele sotto al quale scorre tutto il non detto tra il Cairo e Gerusalemme: i tunnel scavati da Hamas che arrivano alla Striscia. Kerem Shalom è lo scontro fra tre mondi che ha provato a farsi incontro, il punto di contatto obbligato fra tre vicini che hanno rinunciato a comprendersi, al massimo si sono avvicinati per convenienza, parlati per necessità. 

 

 

Ma Kerem Shalom tra i suoi muri alti di cemento armato, sotto a un sole impietoso, tra i razzi di Hamas che volano contro e volano attraverso, tra gli attacchi di Tsahal a Rafah è il posto in cui Israele sa che si misura il suo impegno per sfamare Gaza, qui si sfida l’isolamento internazionale, qui si mostra che Israele è impegnato a mandare cibo, carburante e medicinali nella Striscia. Mentre i camion sfilano l’uno dietro l’altro, rombando forte, cigolando sotto il peso dei loro scatoloni, di là si combatte, c’è Rafah, la città considerata l’ultimo avamposto di quattro battaglioni di Hamas. Alcuni degli ostaggi sono lì, a una manciata di chilometri di distanza e per questo la famiglia di uno di loro ha raggiunto questo punto nel nulla. Hanno portato una torta azzurra, come fosse la festa di un bambino, sopra ci sono due candeline: 2 e 4, Eitan Mor, preso in ostaggio il 7 ottobre compie gli anni.  Quando Hamas ha fatto irruzione in Israele, Eitan lavorava come guardia al Nova Festival, è originario di Kiryat Harba, un insediamento vicino a Hebron, dall’altra parte di Israele rispetto a Kerem Shalom. I suoi parenti vengono al valico quasi ogni giorno. La famiglia è numerosa, hanno portato bandiere israeliane, le sventolano e cantano, stringono il ritratto di Eitan, si avvicinano al cancello del valico, mentre i soldati cercano di chiuderlo. Il padre porta un fucile e una cesta con dentro un vasetto di Nutella, dentifricio, spazzolino, una mela, una busta di caffè, carta igienica: “Noi ai palestinesi mandiamo gli aiuti, mio figlio non ha nulla, questo è quello che dovrebbe avere”. Non sono qui per fermare i camion, sicuramente non oggi, oggi c’è la torta, c’è il ricordo, ogni tanto gridano “Eitan!”, con una “a” lamentosa, allungata per mandarla fino al di là del valico.

 

Valico di Kerem Shalom (foto di Micol Flammini)

 

Non sono qui per rivedere il ragazzo, quasi non sperano neppure di rincontrarlo, loro con le famiglie che chiedono al governo di portare a casa gli ostaggi neppure ci parlano, loro chiedono il contrario: di fare tutto senza pensare agli ostaggi, senza pensare al loro figlio. “Dobbiamo eliminare Hamas, un accordo? – domanda il padre stralunato – non possiamo parlare con i terroristi, dobbiamo sconfiggerli. Tutta questa barbarie raggiungerà anche voi, arriverà anche negli altri paesi se non la fermiamo qui”. Non cede, guarda dritto negli occhi mentre lo dice e dietro alle sue parole vuole spiegare che tra il futuro di suo figlio e quello del suo paese lui ha già scelto ed è talmente sicuro di avere ragione che sente che pure suo figlio la pensa come lui. Anche sua moglie ha scelto tra Eitan e il paese. Eppure quell’Eitaaaan di lamento che si sente ogni tanto è il suo, guarda Gaza e grida “Mazal tov, Eitan, Mazel tov”. La seguono i fratelli, la segue il marito: “Eitaaan, mazel tov”. Alza la torta per il compleanno di un bambino, ha gli stessi colori della bandiera di Israele: loro hanno scelto, dicono.

 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)