polemica nelle università

Ecco che cosa vuol dire trasformare in eroi i carnefici dell'occidente

Claudio Cerasa

Una lettera di complimenti inviata dall’ayatollah Khamenei agli studenti americani anti Israele (e l'identico messaggio inviato da al Qaida nelle stesse ore) mette in chiaro l’obiettivo forse involontario di chi nelle università occidentali confonde l’aggredito con l’aggressore e trasforma i terroristi in resistenti

Si è discusso molto in Italia, negli ultimi giorni, sull’opportunità, o meno, di permettere a un imam di partecipare alle occupazioni pro Palestina nelle università italiane e di lasciargli usare frasi finalizzate, con il benestare del professor Alessandro Barbero, a evocare le virtù del jihad. L’imam in questione, dopo aver offerto lezioni sulla guerra santa nell’Università di Torino, è stato per fortuna respinto a Milano, dove avrebbe dovuto partecipare a un incontro organizzato da un collettivo studentesco alla Statale, e una volta chiuso l’incidente – si fa per dire – il tema della strumentalizzazione delle proteste pro Pal., da parte degli estremisti islamici, è stato infilato con cura sotto il tappeto dell’ipocrisia da tutti coloro che considerano le manifestazioni contro Israele, nelle università, come delle semplici occasioni in cui viene messa in mostra una sana, genuina e civile forma di libertà di espressione, che in nessun modo, così si dice, può essere confusa con una forma meno sana, meno genuina, meno civile di antisemitismo strisciante.

 

A far vacillare questa tesi ci ha pensato ieri una lettera semplicemente perfetta diffusa sul proprio account ufficiale dalla Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, e rivolta agli studenti universitari americani, e forse non solo a loro, considerati da  Khamenei dei preziosi alleati nel “ramo del fronte della resistenza”. Una lettera che se non fosse drammaticamente realistica suonerebbe come tragicamente comica.

 

“Scrivo questa lettera ai giovani la cui coscienza risvegliata li ha spinti a difendere le donne e i bambini oppressi di Gaza”, scrive l’ayatollah, così interessato ai diritti delle donne nel suo paese da far torturare a morte le donne desiderose di non coprirsi il capo con il velo. E ancora: “Ora avete formato un ramo del Fronte della resistenza e avete iniziato una lotta onorevole nonostante la spietata pressione del vostro governo… il Fronte della resistenza più grande, che condivide le stesse comprensioni e sentimenti che avete voi oggi, è impegnato nella stessa lotta da molti anni in un luogo lontano da voi… L’élite sionista globale ha etichettato questo movimento di resistenza coraggioso e umano come terrorismo… Il Fronte della resistenza avanza grazie alla comprensione globale e alla pratica di questi e centinaia di altri comandi simili e otterrà la vittoria con il permesso di Dio”.

 

La lettera di Khamenei rappresenta un contributo fondamentale per fare chiarezza su quelli che sono gli equilibri in campo quando si parla di Israele. Protestare contro Israele, dice più o meno implicitamente Khamenei, aiuta a delegittimare l’occidente, aiuta a indebolire le élite globali, aiuta a dare un colpo alle democrazie liberali, aiuta a mettere sotto accusa il sistema capitalistico, aiuta a far sentire ai finanziatori di Hamas il sostegno del mondo, aiuta a demonizzare chi considera Hamas semplicemente un gruppo di terroristi assetati di sangue e aiuta a “dare conforto” a chiunque nel mondo consideri la guerra a Gaza come il cuore pulsante di un nuovo e rivoluzionario movimento finalizzato a estirpare dal mondo, con l’aiuto della grande intifada globale, il virus del sionismo.

 

Si potrebbe pensare che quello di Khamenei (e anche quello di al Qaida, che nelle stesse ora ha diffuso un messaggio identico per elogiare i resistenti delle università occidentali) sia una sorta di trollaggio, un modo subdolo di appropriarsi di una protesta altrimenti genuina. Ci piacerebbe pensarlo se non fosse che la Guida suprema iraniana non ha fatto altro che mettere in chiaro quello che è l’obiettivo forse involontario di tutti coloro che nelle università occidentali confondono sistematicamente l’aggredito con l’aggressore, trasformano regolarmente i terroristi in resistenti, dimenticano costantemente di incoraggiare la comunità a compiere l’unico atto che permetterebbe di porre fine rapidamente alla guerra a Gaza: chiedere a Hamas di arrendersi e rilasciare gli ostaggi. Ma meglio occuparsi di sionismo che di terrorismo, no?
 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.