Hong Kong ora è un buco nero

Nella città adesso anche una promessa elettorale è “sovversiva”. Il processo ai 47

Giulia Pompili

Una sentenza e la repressione. Così s’è stretta la morsa cinese 

 Ieri a Hong Kong c’è stata la prima sentenza di un tribunale speciale sui “Quarantasette”, il gruppo di attivisti e politici tra cui gli attivisti Joshua Wong e Gwyneth Ho, i politici Claudia Mo e Leung Kwok-hung, l’esperto di diritto Benny Tai, arrestati quasi tutti nel febbraio del 2021, cioè pochi mesi dopo che Pechino aveva imposto e poi introdotto, da un giorno all’altro, la nuova legge sulla Sicurezza di Hong Kong, quella con cui la leadership autoritaria del Partito comunista cinese, sotto gli occhi del resto del mondo, ha cancellato l’autonomia della città, e con essa i flebili segnali rimasti di sistema di diritto e democrazia. Quella di ieri era la sentenza più attesa dai pochi che ancora, da questa parte di mondo, seguono le vicende di Hong Kong. Perché dopo quattro anni le notizie dalla città che un tempo era territorio britannico si fanno via via più sfumate, frammentate sui media e nel discorso pubblico, come se l’attenzione internazionale abbia rinunciato, per sempre, alla libertà di un territorio che avrebbe dovuto esserlo, libero. E invece la repressione a Hong Kong va avanti, senza tregua. Ieri i tre giudici designati per quello che è considerato il processo più importante da quando è in vigore la legge sulla Sicurezza (ce ne sono molti altri in corso) hanno deciso su 16 dei quarantasette attivisti: quelli, cioè, che si erano dichiarati “non colpevoli” – gli altri sono ancora in attesa di giudizio.

 


14 persone fra ex legislatori, ex consiglieri distrettuali e una ex giornalista sono state ritenute colpevoli di aver preso parte a una “associazione a delinquere finalizzata alla sovversione”. Due degli imputati sono stati prosciolti, ma l’accusa ha già annunciato il ricorso in appello. La maggior parte di loro è in carcere sin dal febbraio del 2021, e a seconda del loro grado di coinvolgimento nella “cospirazione”, rischiano anche l’ergastolo. 
Per opporsi all’arrivo delle leggi di Pechino nel territorio che avrebbe dovuto restare autonomo, i Quarantasette di Hong Kong avevano usato il sistema democratico che era ancora in vigore nella città, molto simile a quello che abbiamo noi: avevano cioè osato organizzare un voto per le primarie, nel tentativo di candidarsi e vincere la maggioranza del LegCo, il consiglio legislativo di Hong Kong, alle elezioni del 2020. L’accusa riguarda ciò che avrebbero voluto fare dopo essere stati eletti: quello che nel sistema anglosassone si chiama filibustering, ostruzionismo, contro l’autoritarismo filo-Pechino. Una “promessa elettorale” definita ora dai giudici come sovversione, cospirazione. Mark L. Clifford, presidente della fondazione Committee for Freedom in Hong Kong, ha scritto ieri su X che nel “processo farsa dei 47 politici di Hong Kong” ci sono dei condannati “sulla base delle promesse elettorali: non erano nemmeno stati eletti e tanto meno avevano messo in atto la loro strategia di veto. Il Partito comunista cinese sapeva di aver perso Hong Kong, quindi ha buttato tutti i democratici in prigione”.

 

Clifford, ex giornalista delle più importanti testate internazionali, è amico personale di Jimmy Lai, il settantaseienne magnate ed editore dell’Apple Daily che credeva nella democrazia, e che è dietro le sbarre dal dicembre del 2020: con lui si scambia ancora delle lettere controllatissime dalle autorità, ha raccontato Clifford qualche giorno fa al Foglio, ma dalle quali traspare l’ottimismo di un uomo che conosce la giustizia e la bontà dei suoi ideali, e trova conforto nella fede – si dice che ad avere avuto un ruolo nella conversione di Lai fu il cardinale Joseph Zen Ze-kiun, novantaduenne, anche lui arrestato due anni fa e poi processato, condannato e multato da un tribunale di Hong Kong. Clifford ha scritto un libro dal titolo evocativo, “Today Hong Kong, Tomorrow the World”, e spiega che c’è ancora un modo per far capire al resto del mondo qual è il vero lato oscuro del Partito comunista cinese, e basterebbe guardare a Hong Kong, un tempo considerata una delle città più “libere d’Asia”. Oggi, dice Clifford, il numero di società e istituzioni finanziarie straniere si è drasticamente ridotto. Perfino il Wall Street Journal ha spostato la sua base a Singapore. Gli stranieri che godevano del sistema di Hong Kong adesso vanno via, soprattutto perché i loro figli, a scuola, sono obbligati a seguire i corsi di nazionalismo cinese. La legge sulla Sicurezza nazionale, introdotta per schiacciare il dissenso, è diventata la legge più oppressiva di Hong Kong. Ma in occidente, al massimo, arrivano storie frammentate di censure e  arresti eccellenti, perché Pechino è riuscita a normalizzare anche questo. Un modo per uscire da questa trappola ci sarebbe, dice Clifford: “Non far cadere l’attenzione. E sanzionare”. Il Committee for Freedom in Hong Kong chiede sanzioni contro chi fa affari col governo locale di Hong Kong, e di chiudere gli Hong Kong Economic and Trade Office (quello italiano è a Milano), uffici con cui Pechino dà la caccia ai dissidenti anche fuori dai confini nazionali. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.