Rabbia e menzogna

Trump condannato, furibondo e confuso medita vendetta. Qualcuno cambierà idea sul voto a novembre?

Paola Peduzzi

Il candidato alla Casa Bianca si è presentato davanti alle telecamere per 40 minuti, dicendo che farà appello, attaccando la corte e Biden e mettendo in guardia i suoi elettori: l'ingiustizia può accadere anche a tutti voi. I repubblicani s'accodano. I democratici cercano di capire che cosa succede ora. Risposte incerte

Donald Trump è stato condannato per aver falsificato i documenti contabili della campagna elettorale del 2016 in modo da nascondere i 130 mila dollari che aveva dato alla pornostar Stormy Daniels perché non rivelasse la loro relazione (i soldi, come è noto, non sono serviti). Si è presentato davanti alle telecamere alla Trump Tower e per 40 minuti ha ripetuto che tutta l’America è in pericolo dopo questo verdetto per un reato da nulla come il suo, che la regia della sua persecuzione è del presidente Joe Biden, che la corte è corrotta, che farà appello (e quindi giustizia, secondo lui) e molte altre cose confuse, false e vendicative.

Cosa cambia quindi dopo un verdetto storico contro un ex presidente da oggi pregiudicato? La risposta onesta è: non si sa, visto che non ci sono precedenti. Poi c’è la risposta scritta nella Costituzione e che è stata ripresa dal Partito democratico. La Costituzione americana non impedisce a un condannato per reati penali di essere eletto e di fare il presidente anche dal carcere: i padri fondatori avevano lasciato la decisione nelle mani degli elettori. Il primo comunicato della Casa Bianca ricalca quello spirito:  decideranno gli americani se vogliono un presidente pregiudicato oppure no.

Il Partito repubblicano votato al negazionismo ha accolto e rilanciato la linea di Trump: questo è un processo politico, la sentenza è una “stronzata”, io sono “very innocent”, innocentissimo e voi americani dovete stare attenti perché se questa ingiustizia capita a me figurarsi cosa può capitare a voi. A parte qualche eccezione, i deputati e i senatori repubblicani hanno fatto da megafono, declinando ognuno a proprio modo la denuncia dell’ingiustizia subita: ci sono state molte bandiere americane capovolte, i vessilli dell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, frasi apocalittiche sullo scontro tra bene e male, e l’aedo del trumpismo, Tucker Carlson, che insinua: Trump vincerà comunque, “se non lo ammazzano prima”. Vladimir Putin pure dice che c’è un complotto in America per silenziare i rivali politici.

La menzogna dell’imbroglio subìto risale alle elezioni del 2020, è andata via via arricchendosi con un assalto violento al Congresso e con l’idea di una persecuzione giudiziaria, fino alla “stronzata” della condanna. Il Partito repubblicano si è accodato: ha rinunciato da molto tempo a isolare questo suo ex presidente fuori controllo e nemmeno troppo rappresentativo dello spirito conservatore, anche quando ne ha avuto l’occasione, dopo il 6 gennaio e dopo il voto di metà mandato del 2022, quando furono le urne a punire i candidati selezionati da Trump. Delegando ai tribunali la responsabilità politica che era sua, il Partito repubblicano ora non può far altro che indignarsi e sbraitare assieme al suo candidato presidenziale. L’elettorato trumpiano fa lo stesso, dona soldi alla campagna per mostrare la sua rabbia e per finanziare la vendetta che ci si augura non sia un altro assalto.

Il Partito democratico ha deciso di non mostrarsi in alcun modo festoso, anche perché è l’umore dentro la campagna elettorale di Biden a non esserlo per nulla. I sondaggi non vanno bene, le fasce di elettorato storicamente democratiche non lo sono più, o almeno non con i numeri del passato (come gli afroamericani), le casse repubblicane si stanno riempiendo di nuovo, in modo consistente. Il problema è sempre lo stesso e la condanna di Trump non lo cambia: le elezioni si decideranno in 6 stati contesi  (Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, Pennsylvania e Wisconsin, qualcuno ci mette anche la Carolina del nord) e all’interno di questi stati soltanto il 6 per cento degli elettori sarà decisivo ed è quello considerato indipendente, e ancora indeciso. C’è una fascia elettorale che è stata studiata di recente ed è quella sostanzialmente degli indifferenti (disimpegnati, li chiamano i sondaggisti). Sono elettori che non vanno sempre a votare, che seguono poco l’informazione politica, che in cima alle priorità mettono l’economia e si annoiano a sentir parlare di democrazia da salvare ma anche di aborto. Per questi elettori – che abitano negli stati decisivi – il verdetto della Corte di New York può forse fare qualche differenza, perché finora dicevano nelle rilevazioni: perché parliamo dell’ex presidente come di un criminale se non è mai stato condannato?

Si tratta di ipotesi, per non sbagliare la Casa Bianca pensa di non fare alcun commento ulteriore sulla condanna: conviene quasi ignorare questo evento storico, almeno fin quando si quietano (ma si quietano?) l’impeto rabbioso e la voglia di vendetta di Trump e dei suoi. Fare affidamento sugli indifferenti non sembra una grande strategia.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi