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Il pride di Israele si fa in silenzio

Micol Flammini

Non c’è musica, si marcia senza grida e tra i volti degli ostaggi. Il primo diritto di Gerusalemme è la libertà di uscire dal tunnel di Hamas

Le istruzioni per partecipare al pride di Gerusalemme sono semplici: crema solare, cappelli, acqua, fiori, fiocchi gialli, bandiere. Nessun dettaglio in più, la bandiera può essere di qualsiasi colore, forma, ma ne vince una: quella arcobaleno, ma con la striscia gialla più larga, perché è il giallo il colore che fa male e che in questo pride tesse il filo tagliente che racconta la storia del paese. Il giallo è il colore degli ostaggi e dell’ignoto, spunta ovunque, è un monito. La marcia di Gerusalemme è dedicata alla libertà. A ogni libertà: di amare chi vuoi, di andare dove vuoi, di vivere, di sopravvivere. Ma c’è una libertà assoluta a cui tutti pensano, mentre si ammassano in silenzio nel fiume di persone che procede verso il parco dell’Indipendenza, punto di arrivo della marcia, ed è la libertà delle oltre centotrenta persone che, vive o morte, sono ancora ostaggio dei tunnel di Hamas. Nella lista delle cose da portare, c’è un richiamo anche a cosa non portare: armi, “anche in caso di porto d’armi”. Nel 2015 , Yishai Schlissel, dell’insediamento di Modi’in Illit, era arrivato alla manifestazione con un coltello nel pastrano nero e mentre si trovava nel mezzo della folla aveva iniziato ad assaltare chi gli stava attorno, uccidendo una ragazza di sedici anni. Era già successo: Schlissel nel 2005 era andato al pride di Gerusalemme armato, aveva provato lo stesso attacco, era stato fermato e condannato a dodici anni, ma era uscito di prigione dopo tre settimane, per i successivi dieci anni aveva lasciato trascorrere il tempo prima di riprovarci e riuscirci. Da allora niente armi, alla marcia si accede in punti precisi, con un braccialetto giallo che serve da pass e che viene consegnato dopo i controlli.

 

Si entra vestiti, travestiti, svestiti, ma non armati e per unirsi al corteo capita di dover fare il giro dell’intero centro per trovare l’ingresso giusto. Se si esce un attimo dal mare di bandiere, si è perduti: “Dove si entra?”. Il soldato spiega: “A destra, poi a sinistra, poi destra, ancora destra, in via Hillel”. Ma in via Hillel la transenna è già chiusa, bisogna andare ancora oltre e chiedere a un altro soldato. “Dove si entra?”, “Sinistra, su per le scale, nel vicolo, ancora sinistra”. I partecipanti, le bandiere, i fuoriusciti che vogliono rientrare si seguono l’un l’altro creando una seconda marcia rispetto alla marcia centrale, ma con lo stesso colore giallo che unisce tutti nella Gerusalemme blindata e sorvegliata. Non è una festa, non c’è da festeggiare e un pride così silenzioso, senza musica, è l’unica cosa che Israele crede di potersi permettere durante la guerra. Di solito è Tel Aviv la patria dei pride sfrontati, rumorosi, urlati e ululati, ma quest’anno non sarà così, non c’è voglia di sfrontatezza, il giallo copre tutto come una coltre di colpa e di rabbia e Gerusalemme ha deciso di organizzare l’unica marcia che ha senso di esistere: il pride con le famiglie degli ostaggi per chiedere prima di ogni diritto, quello supremo, quello alla libertà. Il motto è “Born to be free”, nato per essere libero, scritto in inglese. E il simbolo è un fiocco a lutto, sempre giallo, come quello che tanti portano sulle magliette, sulle giacche, non soltanto durante la marcia ma in qualsiasi momento della giornata dal 7 ottobre, serve a dire: dimenticarci non è concesso. Tra le bandiere spuntano i volti degli ostaggi, i loro nomi vengono elencati, uno a uno, non bisogna dimenticarsi di nessuno. Ognuno sceglie chi rappresentare: Tal, Naama, Noa, Matan, Ariel, Amitam, Nimrod, Sasha e gli altri. Dal 7 ottobre, questi volti sono diventati cartelli e gli israeliani che mai li avevano conosciuti prima li portano con loro, li stringono, li mostrano. Una ragazza bruna ha con sé il cartello con il volto di Rom Braslavski, lo stringe e lo alza per mostrarlo bene, non lo conosce, “che importa conoscerlo? Potevo essere io, mio fratello, tu? Lo porto con me alle manifestazioni, mi sento responsabile per lui e per tutti gli altri, sono qui per la libertà, la mia, la sua, la loro”. Si sfila vestiti di rosa, arcobaleno, e le bandiere si moltiplicano, si triplicano, non è un pride sommesso, è soltanto più silenzioso, è una marcia di questi tempi israeliani, in cui durante le feste si lasciano le sedie vuote per far vedere che manca qualcuno, in cui ogni sabato si scende in piazza a Tel Aviv per gridare “Akhshav”, che vuol dire adesso, immediatamente, subito. In cui ogni festeggiamento porta con sé il senso di colpa che ogni sopravvissuto nasconde. In cui non è concesso riempire i vuoti. 

 


Rispetto agli anni precedenti la partecipazione è inferiore, Israele si sente polarizzata, sta perdendo l’unità ritrovata nei primi mesi dopo il 7 ottobre e un evento come il pride che di solito conta trentamila partecipanti, questa volta ne ha visti diecimila. Pesa la paura di attentati e pesa il nuovo atteggiamento comune di fare ormai tutto di fretta, di ridurre le azioni al minimo, gli incontri al minimo. 
Il pride di Gerusalemme avanza senza fretta, le famiglie degli ostaggi guidano il corteo, molti fratelli, sorelle, genitori e figli hanno smesso di fare qualsiasi cosa, ormai dedicano la loro vita a chiedere un accordo per la liberazione di chi è stato rapito. Dal resto dei partecipanti del pride, tra chi sfoggia parrucche arcobaleno, qualche lustrino e messaggi di pace sembra arrivare un senso di rispetto profondo, tutti hanno accettato che quest’anno il pride dovesse essere diverso. “Questa non è una marcia funebre – dice uno dei partecipanti con la kippah in testa e con una bandiera con la falce e il martello immerse nel rosa – i diritti che cerchiamo possono essere chiesti anche senza canzoni festose, mi sarei sentito irrispettoso a partecipare al solito pride”. Un amico vicino a lui si intromette, è vestito tutto di nero con un fiocco giallo sulla maglietta: “La nostra battaglia per i diritti non è finita, ma per Israele ora libertà vuol dire un’altra cosa. Dobbiamo prima portare a casa gli ostaggi, poi miglioreremo anche il resto. Ma se non salveremo loro, non saremo in grado di cambiare nient’altro”. Qui c’è tutto il disaccordo del paese. Salvare gli ostaggi vuol dire fare un accordo con Hamas che in questo momento, in cambio del ritorno degli israeliani sequestrati, chiede di finire la guerra, quindi di essere lasciato al potere nella Striscia, e la scarcerazione di una lunga lista di prigionieri dalle carceri israeliane, alcuni condannati per terrorismo. La contrapposizione in Israele è netta, potrebbe essere riassunta come una dicotomia tra individuale e collettivo, chi pensa ai singoli cittadini e al dolore delle loro famiglie e chi pensa al futuro del paese che, se Hamas rimane al potere, darà un segno di debolezza, si esporrà ad altri attacchi e ad altri massacri. Nel fiume di bandiere arcobaleno e ritratti di ostaggi, però, chi partecipa non è d’accordo a definirsi individualista: “La scelta che faremo mostrerà chi siamo, chi è Israele, salvare i prigionieri a Gaza ne va della nostra moralità, della moralità del paese. Se non facciamo il possibile per portarli fuori, Israele avrà perduto la sua missione. Tutto il paese, non soltanto il primo ministro”. Si affaccia anche la politica al pride, il ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir fa una visita tra i fischi. Da mesi minaccia di far cadere il governo se si fa qualunque un accordo con Hamas per liberare gli ostaggi, anche una tregua, lui che mai ha fatto il servizio militare è dell’idea che bisogna soltanto combattere. E’ incurante dei fischi, sembra qui di proposito, per dare fastidio e dice di essere venuto soltanto per fare il suo dovere e controllare se la sicurezza funziona. Si compiace da solo che tutto fila liscio, aveva fatto la sua apparizione contestata anche lo scorso anno, in una Gerusalemme diversa, mai trasgressiva, ma meno silenziosa. I più presenti sono i politici di Yesh Atid, il partito di centrosinistra, guidato da Yair Lapid, che nel caso in cui l’8 giugno prossimo l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz dovesse decidere di ritirare il suo sostegno al governo di emergenza, trama per arrivare a elezioni, proponendo una coalizione posticcia con vecchi alleati pericolosi e collaborazioni rodate. Lapid sta recuperando consensi, è rimasto fuori dal governo di unità nazionale, si destreggia in acrobazie oratorie spericolate parlando della liberazione degli ostaggi e della necessità di sconfiggere Hamas: “Quest’anno la marcia è più importante che mai – ha detto – ci ricordiamo che non stiamo soltanto lottando per la vita dello stato di Israele ma anche per che tipo di paese vogliamo che sia, quali siano i suoi valori, in cosa vogliamo che creda”. Le bandiere sventolano, gli applausi sono fragorosi. 


Il pride del cordoglio procede e arriva a un prato, lungo la strada qualcuno ha abbandonato un cartello: “Questo sangue è sulle vostre mani”. Il sangue di chi? Non ci sono spiegazioni, chiunque lo portasse lo ha abbandonato senza darle, deve aver lasciato la marcia prima degli altri o forse è ancora nel corteo ma non ha voglia di spiegare. Oppure faceva parte dei ragazzi che improvvisamente si sono gettati a terra e hanno mostrato foto da Gaza, poco distanti da un signore in piedi con un bastone in cima al quale c’è il volto di Sasha Trupanov, il ragazzo preso in ostaggio con la famiglia, di cui pochi giorni fa i terroristi hanno mostrato trenta secondi di video, con la promessa di mostrare anche il resto per far sapere cosa ne è stato di Sasha e di altri. L’attesa sfinisce in un paese che negli ultimi tempi ha scelto un nuovo simbolo per raccontarsi: una clessidra dentro la quale scorre della sabbia gialla. Qui il tempo non c’è. 
Per le strade di Gerusalemme sventolano bandiere di tutti i tipi, nazionali, rosse, gialle, c’è una bandiera palestinese, ma sia il triangolo sia le strisce hanno i colori dell’arcobaleno e dentro c’è scritto “Bring them home”, riportateli a casa. La marcia a Gerusalemme è tutto questo insieme, è il coro di un paese pieno di opinioni, che non la finisce di litigare, e anche qui si litiga e ai ragazzi stesi a terra qualcuno chiede di alzarsi. Sembra che questa marcia voglia tenere tutto assieme: religione, politica, gli ostaggi, i civili di Gaza. Sembra un contenitore elettrizzato di timori, speranze e responsabilità. Variegato e ansioso, per il quale però parlare con le comunità lgbt in giro per il mondo è sempre più complesso. Qui i colori ci sono tutti, nei campus americani ed europei ce n’è uno solo e non è il giallo. 
Davanti al prato, punto finale della marcia, c’è un palco, si avvicendano alcuni parenti degli ostaggi, poi arriva Omer Ohana e tutti si alzano in piedi e compare una nuova bandiera: i colori arcobaleno con al centro la stella di David e sotto il nome di Sagi Golan, uno dei soldati ucciso nel kibbutz di Be’eri il 7 ottobre. Era il compagno di Omer, si sarebbero dovuti sposare due settimane dopo. Omer, con alle spalle il volto di Sagi sorridente proiettato su uno schermo, non trattiene le lacrime mentre racconta i tre giorni “di completa oscurità” che ha sopportato prima che gli comunicassero della morte del compagno: “Sagi non tornerà, ma gli ostaggi devono tornare ora, akhshav”. Questo pride è giallo, il colore contro l’oscurità, contro la solitudine. L’antidoto al buio degli ostaggi e di chi li aspetta. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)