Donald Trump - foto via Getty Images

Questione di sistema

Perché Donald Trump non doveva essere al contempo candidato e in tribunale

Marco Bardazzi

Tre pro e tre contro l’idea che la condanna all'ex presidente degli Stati Uniti sia un sintomo di salute della democrazia. Così il Tycoon, ora, ha bisogno di ritornare alla Casa Bianca non per salvare il paese, ma per salvarsi dalla cella. E non a causa di questo processo, il meno grave di quelli a suo carico

Ci sono almeno tre buoni motivi per sostenere che il verdetto di colpevolezza per Donald Trump rappresenta un segnale che la democrazia americana gode ancora di buona salute, ha una Costituzione solida e un sistema di check and balance che continua a garantire lo stato di diritto. Ma ci sono almeno altri tre buoni motivi per affermare il contrario e leggere quello che è avvenuto giovedì come una sconfitta degli Stati Uniti, un avvertimento del fatto che il sistema democratico si sta inceppando. Analisti e commentatori americani stanno facendo emergere entrambi gli aspetti legati alla prima condanna penale nella storia a un ex presidente. A prescindere dagli esiti sulla campagna elettorale, il punto decisivo che tiene insieme tutto è: in un paese con una democrazia sana, Trump non sarebbe mai dovuto entrare in quell’aula di tribunale in veste di candidato alla Casa Bianca.

 

 

Il problema non sta nell’aver condannato un ex presidente (prima o poi nella storia poteva capitare), ma un ex presidente che aspira a esserlo di nuovo. Per questo non c’è negli Stati Uniti, dopo il verdetto, la stessa sensazione di solidità della democrazia che c’era stata, per esempio, quando Richard Nixon si dimise per lo scandalo Watergate, per evitare il trauma di un impeachment al Congresso.
 

Proviamo a vedere i tre motivi di chi legge positivamente i 34 "guilty" pronunciati contro Trump. Il primo è che l’ex presidente non è stato condannato, come i repubblicani adesso vogliono far credere, da un giudice di area democratica appoggiato da un sistema giudiziario in mano al partito di Joe Biden. Il verdetto è stato deciso da una giuria di dodici cittadini anonimi, americani qualunque scelti con cautela da accusa e difesa in mezzo a centinaia di potenziali giurati selezionati casualmente da un computer. Sarebbe bastato un solo giurato dissenziente per annullare il processo, che richiedeva un verdetto unanime. Invece in due giorni la giuria ha raggiunto un verdetto su tutti i trentaquattro capi d’imputazione.
 

Un segnale forte che in America nessuno, neppure un ex presidente, deve ritenersi al di sopra della legge. Tutto lo svolgimento del processo – secondo motivo – è stato privo di sceneggiate o tentativi di sabotaggio. Trump ha assistito silenziosamente e in modo disciplinato a ogni udienza, mentre ai suoi sostenitori è stata data la possibilità di manifestare in piazza, protestare sui social, insultare chi volevano. Poteva andare molto peggio, visto ciò che è accaduto con l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. È andato tutto bene e questo è un buon segno. Così come è un buon segno – terzo motivo – che il processo sia arrivato a dibattimento, in tempi rapidi e senza particolari ostacoli, nonostante l’alto profilo dell’imputato.

 

 

Ma qui si innesca il primo dei tre motivi per cui, invece, c’è da preoccuparsi. Perché quello di Manhattan era solo uno dei quattro processi che attendono Trump, il meno grave. Per una riflessione sulla democrazia americana sarebbe stato molto più significativo che fossero arrivati in aula i due processi federali, nei quali è accusato di insurrezione e in pratica di aver favorito uno strisciante colpo di stato.
 

Uno di quei due processi, in Georgia, è lontano dal dibattimento per motivi che niente hanno a che fare con la politica: tutto si è impantanato per una storia d’amore tra la capa della procura e il pm a cui aveva assegnato il caso. Se ne riparlerà (forse) dopo le elezioni, nonostante in ballo ci sia l’accusa che Trump abbia agito per bloccare il riconoscimento della vittoria di Biden in Georgia, decisiva nel 2020 come lo sarà nel 2024 per assegnare la Casa Bianca.
 

Il processo a Washington per l’assalto a Capitol Hill è fermo in attesa di una sentenza della Corte suprema che tiene tutto in stallo ed è al centro di scontri politici durissimi. Il quarto processo, in Florida, è stato praticamente bloccato da una giudice trumpiana. Ecco il secondo motivo di preoccupazione: la politicizzazione della giustizia sta mandando in cortocircuito gli equilibri tra poteri esecutivo, legislativo e giudiziario.
 

Ma è il terzo e ultimo motivo quello che fa più riflettere. Trump ha bisogno di andare alla Casa Bianca non per salvare il paese, come proclama, ma per salvarsi dalla cella. Da presidente, avrà il potere di cancellare i processi di Washington e Georgia e mandare probabilmente in tilt quelli di New York e Miami.
 

Qui sta il problema di fondo: il sistema aveva tutti gli strumenti per impedire a Trump di candidarsi di nuovo. Bastava che la politica facesse scelte diverse nel momento in cui è stato sottoposto al secondo impeachment al Congresso per l’assalto a Capitol Hill del 2021. Oggi parleremmo del processo di New York come di una vicenda secondaria, relativa a un ex presidente caduto in disgrazia. Non del verdetto contro il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti che punta a diventare anche il quarantasettesimo.