Joe Biden (Ansa)

dopo l'annuncio della casa bianca

L'imbroglio di Biden per la fine della guerra a Gaza

Giuliano Ferrara

Il piano del presidente americano è una bandiera bianca dissimulata, la rinuncia degli obiettivi sacrosanti di Israele. Ma se il prezzo di qualche decimale elettorale nel Michigan è la perdita dello stato ebraico, il prezzo non è giusto né possibile

Il piano Biden per la fine della guerra a Gaza è una bandiera bianca dissimulata. Può essere che il suo scopo sia far fuori Netanyahu per creare una situazione di precario equilibrio che sarebbe salutata come una vittoria strategica da Hamas. Da “free Gaza from Hamas” si passerebbe a “free Israel from Bibi”, con le congratulazioni di Hamas Khamenei Erdogan e Putin. Una tregua e uno scambio tra detenuti palestinesi e ostaggi c’è già stata, e può ripetersi anche con l’avallo, che già non era mancato, del governo di Gerusalemme e di Tsahal. Sarebbe un nuovo alleviamento della tensione morale e politica intorno a un paese assediato dalla menzogna internazionale, a sfondo antigiudaico, secondo cui la guerra di Gaza non è il legittimo tentativo di autodifesa, il cui fine è lo sradicamento di Hamas e il controllo della Striscia fino alla delineazione di un vero nuovo quadro di governo senza gli autori del pogrom del 7 ottobre, ma un tentato genocidio contro i palestinesi.
 

Ma un conto è una tregua umanitaria, un conto è uno scambio, un altro conto è la richiesta a fanfara, suonata dall’Onu e da molti capi di stato occidentali, della fine della guerra negoziata, alle loro condizioni, con i Sinwar e i Mohammed Deif rintanati nei tunnel con gli ostaggi, forti dell’appoggio di molti fronti, dagli Ayatollah agli Houti agli Hezbollah fino ai campus in rivolta per una Palestina “libera dal fiume al mare”. Se il problema è che il mondo si è girato contro Israele in guerra di autodifesa, e che la sfida elettorale americana deve tenerne conto, non si può pretendere che Israele si pieghi a questo schema disfattista. Ci può essere un passaggio negoziale, non la fine della guerra e dei suoi obiettivi sacrosanti, con i fuochi d’artificio da Rafah a Teheran a Beirut.  

Il problema non riguarda Smotrich e Ben-Gvir, la destra oltranzista che fu necessaria a Netanyahu per formare una maggioranza di governo dopo cinque elezioni in quattro anni. E’ uno schema politico e morale generale, valido in ogni simile occasione. Chi ricorda il caso del rapimento di Moro (1978) sa quali fossero gli argomenti del cosiddetto fronte della fermezza. L’Italia non può essere ostaggio dei terroristi delle Brigate rosse, l’eccidio di via Fani e la campagna di primavera delle Bierre, con molti morti, comportavano la negazione di uno status di interlocutori agli uomini di Moretti che uccidevano e detenevano il “prigioniero politico”, implicavano il rifiuto di un negoziato, ne andava della salvezza dello stato e della sicurezza della società italiana. Il partito della trattativa aveva il solo argomento umanitario: la salvezza dell’ostaggio poteva valere forse un atto umanitario unilaterale dello stato, per il Vaticano il pagamento di un riscatto in denaro, per il disgraziato capo dell’Onu Kurt Waldheim un riconoscimento diplomatico delle Bierre, non una intesa per lasciare in vita, legittimato, il partito armato che predicava e faceva la guerra civile. A Gaza, come in tutte le guerre di difesa da un’aggressione, non è possibile un cedimento su questo punto: si possono trattare accomodamenti provvisori e parziali, non la fine della guerra e la rassegnata rinuncia al suo obiettivo con la vittoria di Hamas. 

Biden e i suoi uomini dovevano pensarci prima. Prima di andare sul terreno, abbracciare il capo del governo, legittimare la guerra di autodifesa contro Hamas. Dovevano impedire da subito, se fosse stato in loro potere farlo, la guerra di liberazione di Gaza da Hamas. Non era possibile fare a quel modo, come suggeriva Tom Friedman, semplicemente perché non esisteva e non esiste alternativa a quell’impresa di distruzione di una vasta e ramificata banda terrorista forte di un’ideologia di nichilismo radicale islamista, pronta a sacrificare anche le vite di centomila palestinesi, come testualmente affermato da Sinwar, e a servirsi di ostaggi e civili come scudi. Scoprire oggi che esiste un’alternativa, che la si può giocare nella lotta politica interna a Israele, usando cinicamente la pietà per gli ostaggi e l’ansia di pace purchessia, è un errore, peggio, un errore che è un imbroglio. Chiunque al posto di Netanyahu dovrebbe fare i conti con la maggioranza di israeliani, anche se prostrati per la lunghezza e la tortuosità di una guerra tremenda, che vuole non la fine della guerra ma la totale messa in mora del nemico esistenziale. Comunque, se il prezzo di qualche decimale elettorale nel Michigan è la perdita dello stato ebraico, il prezzo non è giusto né possibile.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.